Rwanda 4 – i cento giorni

Belgio

Il 14 aprile, una settimana dopo l’assassinio dei suoi soldati, il Belgio si ritirò dalla MINUAR, come era stato previsto dall’Hutu Power.

Sembra che i soldati belgi, sentendosi umiliati, abbiano gettato i loro berretti blu sulla pista dell’aeroporto di Kigali, prima di andarsene.

 

 

ONU

Il 21 aprile, il generalmaggiore Roméo Dallaire, comandante della MINUAR, dichiarò che con 5.000 uomini equipaggiati e un nuovo mandato nei confronti dell’Hutu Power, avrebbe potuto fermare la carneficina. Successivamente diversi analisti militari hanno confermato questa valutazione, infatti una delle priorità, il trasmettitore di radio RTLM, che avrebbe avuto un ruolo determinante per incitare la gente al massacro, sarebbe potuto essere facilmente distrutto.

Al contrario, nello stesso giorno, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU approvò una risoluzione che diminuiva del 90% le forze in campo e ordinò il ritiro, salvo 270 uomini in veste di “osservatori” con un mandato che permetteva al massimo di rimanere nascosti dietro ai sacchetti di sabbia.

Il ritiro delle truppe ONU fu la maggior vittoria dell’Hutu Power (in quell’anno il Rwanda era membro non permanente del Consiglio di Sicurezza) e la responsabilità può essere attribuita quasi totalmente agli Stati Uniti, che dopo la disfatta della Somalia non voleva più inviare truppe americane nelle missioni di pace delle Nazioni Unite, e poco importava se Dallaire non aveva chiesto espressamente rinforzi americani, né che non si trattasse di missione di pace, ma di prevenzione al genocidio, la PDD25 (Decisione Presidenziale Direttiva) aveva una clausola in cui gli USA dovessero persuadere gli altri paesi in missioni che definivano indesiderate, al punto che Madeleine Albright si oppose anche a far rimanere i 270 uomini.

Una settimana dopo, il 29 aprile, gli ambasciatori di Cecoslovacchia, Spagna e Nuova Zelanda, raggiunti da prove inconfutabili di un genocidio in corso e alquanto sdegnati, cominciarono a fare pressioni sul ritorno delle truppe ONU, al ché gli USA chiesero la guida della missione. Missione che non è mai esistita perché con il Rwanda nel consiglio di sicurezza non riuscirono ad approvare alcuna risoluzione che contenesse la parola “genocidio”.

Il 13 maggio il Consiglio di Sicurezza, si impegnava finalmente a votare un risoluzione per l’invio di truppe, che la Albright rimandò di quattro giorni, con l’insistenza americana di inviarle molto lentamente.

 

 

USA

A giugno un gruppo di otto nazioni africane esasperate, si rese disponibile a inviare una forza di interposizione in Rwanda se gli USA gli avessero mandato 50 blindati per il trasporto dei soldati. L’amministrazione Clinton approvò, ma invece di mandarli ai coraggiosi africani, decise di concederli in affitto all’ONU a un prezzo di 15 mln di dollari (nonostante avessero nei confronti dell’ONU un arretrato di miliardi di dollari).

I primi di giugno il Segretario dell’ONU e, sorprendentemente, anche l’ambasciatore francese, cominciarono a definire ciò che accadeva in Rwanda un genocidio, ma l’Alto Commissario per i Diritti Umani preferiva continuare a usare l’espressione “possibile genocidio”, mentre l’amministrazione Clinton proibiva categoricamente l’uso di quella parola senza ulteriori specificazioni. La posizione ufficiale era: ”potrebbero essere stati commessi degli atti di genocidio”. Incalzata dai giornalisti su quanti atti di genocidio erano necessari per fare un genocidio, Christine Shelley, portavoce del Dipartimento di Stato, fra: “c’è una ragione per le parole, stiamo interpellando gli avvocati”, e: “stiamo valutando il problema dal punto di vista formale” alla fine ammise che rifiutare la denominazione genocidio era una scelta perché quel termine comportava determinati obblighi.

Quindi Washington non voleva agire e per non agire non doveva essere genocidio (nonostante nei pochi minuti di tempo intercorso fra lo scambio di battute con i giornalisti, in Rwanda venissero sterminati decine di Tutsi).

Ma non era finita, al fronte della stampa e di membri del Congresso disgustati dall’evasività, i consulenti di Clinton diedero una nuova interpretazione alla Convenzione: “la Convenzione non obbliga ad intervenire, ma solo ad autorizzare azioni preventive”.

E mentre negli USA si disquisiva sull’interpretazione delle norme, i mezzi blindati destinati al trasporto delle truppe africane erano ferme in Germania, con l’ONU impegnato a trattare uno sconto di cinque milioni di dollari sull’affitto e quando finalmente si raggiunse un accordo, i cargo per il trasporto non erano più disponibili.

Nel frattempo, mentre l’opinione pubblica americana era sempre più preoccupata per gli avvenimenti in Rwanda, i funzionari di Stato dichiararono ai giornalisti che Washington stava contribuendo a ripulire il lago Vittoria da decine di migliaia di cadaveri. In pratica, gli USA, più cercavano di non sporcarsi le mani, più se le trovavano imbrattate.

 

 

Francia

La Francia nel frattempo era preoccupata di non perdere il prestigio politico e militare investito in Rwanda, che significava cercare di salvare i membri dell’Hutu Power, di fronte ad una sempre più probabile sconfitta da parte dell’FPR anglofono. Sembra che durante tutto il periodo dell’orrore, le comunicazioni fra Kigali e Parigi fossero rimaste costanti, cordiali e “cospirative”.

La posizione ufficiale francese era quella di: “un’esplosione di rabbia popolare dovuta all’assassinio del presidente Habyarimana” e che “il governo e le Forze Armate Rwandesi (FAR) agivano solo per ristabilire l’ordine per cui le uccisioni facevano parte della guerra contro l’FPR”. In pratica diceva che i Rwandesi si stavano ammazzando fra di loro come avevano fatto per secoli.

Nonostante la mistificazione, il genocidio continuava ed era sempre più evidente, quindi una azione francese, in difesa dei suoi protetti poteva rivelarsi una mossa controproducente. Ormai la stampa stava evidentemente mostrando le prove del coinvolgimento francese in quel massacro, per cui il governo pensò bene di organizzare una missione “umanitaria” sotto le bandiere dell’ONU e composta da soldati senegalesi per dare una parvenza multinazionale. Le reazioni furono subito indignate, sia da parte di Dallaire, sia da parte di Mandela che chiese subito quali fossero le vere intenzioni dei francesi, sia da parte dell’RPF che giudicò inaccettabile l’operazione.

Nelle notti del 16 e del 18 giugno vennero fatti atterrare a Goma, in Zaire, presso il confine ruandese, con la complicità francese, e trasportati in Rwanda, diversi carichi di armi destinati all’Hutu Power.

Nonostante ciò, quattro giorni dopo il Consiglio di sicurezza dell’ONU approvò l’intervento dell’ “imparziale” Francia, denominato Opération Turquoise, con il mandato di poter usare la forza, cioè quello che era sempre stato negato a Dallaire e alle forze del MINUAR.

Il tempismo fu straordinario perché a fine maggio lo sterminio dei Tutsi aveva perso intensità in quanto la maggior parte erano morti, anche se la caccia continuava nella parte occidentale, mentre quella orientale veniva occupata dall’FPR ma, come scrisse un tecnico-politico che aveva partecipato alla task force francese: “a Parigi la preoccupazione era che le truppe non riuscissero a trovare grandi concentrazioni di Tutsi da salvare davanti alle telecamere”.

Ufficialmente la Francia aveva dichiarato al consiglio di Sicurezza che: “i nostri obiettivi in Rwanda non ci consentono di interferire con le parti in causa”, ma dopo una settimana dal loro arrivo, mentre gli americani erano ancora in trattative per la fornitura dei blindati agli africani, avevano occupato un quarto del Paese, acclamati dalla maggioranza degli Hutu, e organizzati in modo da poter fronteggiare l’FPR.

Definendo la propria operazione come “umanitaria” dichiararono di trasformare la zona occupata come zona di “sicurezza”. Non solo l’FPR si chiese: “sicurezza da chi?”, ma anche l’ex presidente Giscard D’Estaing accusò il governo di voler proteggere i genocidaires.

Accuse giustificate dato che fin dal primo momento del loro arrivo i francesi sostennero i leader locali che avevano guidato il genocidio e probabilmente fu grazie a l’Opération Turquoise che l’Hutu Power riuscì a prolungare di un mese la strage dei Tutsi.

 

 

FPR

Il 7 aprile l’FPR, che era all’erta nel periodo dei negoziati, alla notizia dell’uccisione di Habyarimana e l’inizio delle uccisioni dei Tutsi, riprese i combattimenti nella zona smilitarizzata del nordest avanzando verso la capitale.

L’Hutu Power aveva investito e programmato talmente tante risorse nell’eccidio interno da commettere il banale errore di lasciare indebolito il fronte così che la resistenza trovata fu molto debole.

Quando i francesi stavano ancora pensando di inviare una spedizione, l’FPR aveva già conquistato il Rwanda orientale e mano a mano che avanzavano, lo sterminio dei Tutsi veniva mostrato al mondo.

Contemporaneamente l’Hutu Power, radio RTML e i nuovi leader ruandesi diffondevano la voce che l’FPR uccideva tutti gli Hutu che trovava vivi, mentre i portavoce francesi diramavano la voce di un “duplice genocidio” definendo l’FPR come una formazione di “Khmer noir”.

A fronte di ciò i Tutsi dell’FPR, dopo che i francesi conquistarono il sudovest del Paese, non si lasciarono mancare l’occasione di lanciare un’offensiva fino alla zona da loro occupata.

Il 2 Luglio presero Butare, nella zona Turquoise francese e due giorni dopo Kigali, la capitale, mandando in fumo i piani dell’Hutu Power che voleva celebrare la festa dell’indipendenza con l’eliminazione dei Tutsi.

 

 

Hutu Power

All’inizio di luglio, quando l’FPR entrò a Kigali, più di un milione di Hutu fuggì verso ovest, spinti dalla paura di una rappresaglia. A questo punto la macchina della propaganda dell’Hutu Power cominciò a far credere che erano loro le vittime e mentre i francesi attribuivano all’Opération Turquoise il salvataggio di decine di migliaia di Tutsi, nella zona da loro occupata i Tutsi venivano ancora uccisi a migliaia con i reparti dell’Hutu Power che drappeggiavano bandiere francesi per snidare i Tutsi nascosti.

Radio RTML prima di fuggire traslocando gli studi, continuò con la propaganda, dichiarando che le decine di migliaia di cadaveri che galleggiavano nel lago Vittoria erano Hutu uccisi dai Tutsi dell’FPR.

Ormai il Paese era in fuga, un milione e mezzo di persone raggiungevano Goma, a nordovest, in territorio zairese. Gli altri fuggivano a sudovest, nella zona Turquoise, controllata dai francesi. I battaglioni delle forze armate ruandesi (FAR) e i leader dell’Hutu Power si nascosero tra la folla in fuga continuando con la campagna di propaganda di essere loro le vittime.

I vertici dell’FPR li seguirono nel nordovest, roccaforte dell’Hutu Power, appropriandosi così del resto del Paese.

Fra il 14 e il 15 luglio mezzo milione di persone valicò il confine con lo Zaire, contemporaneamente gli USA ruppero con il governo ruandese e chiusero l’ambasciata di Washington, il 16 luglio il presidente dell’Hutu Power, i suoi ministri e i suoi dignitari si rifugiarono nella zona Turquoise, ma nonostante la Francia avesse promesso il loro arresto, il giorno seguente anche loro si trasferirono in Zaire.

Da quel momento l’esercito nazionale ruandese prese il nome di Rwandese Patriotic Army, le Forces Armée Rwandaises in esilio si chiamarono ex FAR, e l’FPR divenne il partito dominante del nuovo regime.

Il 20 luglio le ex FAR e le brigate dell’Hutu Power cominciarono a saccheggiare i viveri di soccorso scaricati dagli aerei per i rifugiati in Zaire. Iniziò l’epidemia di colera nei campi profughi di Goma e da quel momento il genocidio cessò di essere una notizia di attualità.

A Goma c’erano diversi campi profughi, uno da trecentomila, l’altro da duecentomila e così via fino a un milione e mezzo di persone. Il mondo che, secondo il comandante dell’FPR Paul Kagame, “se n’era rimasto con le mani in tasca durante lo sterminio dei Tutsi”, a quel punto reagì con fortissima emozione alle immagini della fuga degli Hutu in Zaire che venivano trasmesse da tutte le televisioni del pianeta.

Nei mesi e negli anni seguenti i leaders genocidaires dell’Hutu Power, con le ex FAR, nascosti fra le centinaia di migliaia di profughi dello Zaire, continuarono la loro campagna etnica contro i Tutsi, sconfinando con incursioni terroristiche in Rwanda e provocando altrettante reazioni del nuovo governo ruandese, causando lo scoppio della I guerra del Congo e della II guerra del Congo che terminò a metà degli anni 2000, i cui strascichi sono cronaca attuale. E questa è un’altra brutta storia.

 

 

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Nel settembre 1997, poco prima che il segretario generale Kofi Annan gli impedisse di testimoniare davanti al senato belga, il generale Dallaire, comandante della MINUAR, alla televisione canadese dichiarò: “Sono pienamente responsabile della morte di dieci soldati belgi, di altre morti, delle ferite non curate per mancanza di medicinali di molti miei soldati, dell’assassinio di cinquantasei operatori della Croce Rossa, di due milioni di rifugiati e dello sterminio di circa un milione di ruandesi, perché la missione è fallita, e io mi considero intimamente responsabile di ciò che è accaduto.”

Paul Kagame, comandante in capo dell’FPR e attuale presidente del Rwanda, in un’intervista a Philip Gourevitch, disse che apprezzava Dallaire come uomo, ma non l’elmetto che indossava e che gli aveva detto chiaramente: “la MINUAR era qui, armata, aveva mezzi blindati, carri armati, ogni sorta di armamenti e restava a guardare mentre la gente veniva uccisa. In una situazione come quella, io avrei preso una posizione. Anche fossi stato al servizio dell’ONU avrei fatto la scelta di proteggere la gente”.

Anche fra coloro che parteciparono all’Opération Turquoise ci furono anime turbate. Il sergente maggiore Thierry Prungnaud disse a un giornalista: “Siamo stati ingannati, non è quello che ci hanno fatto credere. Ci avevano detto che i Tutsi stavano uccidendo gli Hutu. Pensavamo che i buoni, le vittime fossero gli Hutu”.

 

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