Rwanda 3 – l’orrore

Madame Agathe

Fedele alla tradizione ruandese che vedeva la regina madre attribuita di grossi poteri, anche in quest’epoca moderna il ruolo di Agathe Kazinga, moglie del presidente Habyarimana fu significativo nella storia del Ruanda. Si narra fosse lei il pilastro del governo e che Habyarimana governasse all’ombra della moglie. Mentre il marito discendeva da una famiglia modesta, Madame Agathe, donna pia e cattolica, amante dello shopping parigino, frequentatrice di veggenti e simpatizzante di Little Pebble, era figlia di gente importante.

 

 

Veniva chiamata Kanjogera, dal nome della malvagia regina madre del mwami Musinga, la Lady Macbeth delle saghe ruandesi. I suoi parenti e la sua cricca erano influenti, ed erano quelli che avevano dato al presidente l’aura di cui si circondava; sorvegliavano, spiavano e spesso, in segreto, uccidevano per lui, quindi “le clan de Madame” fu il primo a risentire delle ristrettezze economiche del Paese.

Le clan de Madame”, conosciuto come akazu (piccola casa) era il centro di quell’intrigo politico, militare ed economico che successivamente prese il nome di Hutu Power, l’epicentro del terrore.

 

 

Liste

Abbiamo lasciato la cronaca con l’ingresso in Ruanda delle truppe dell’FPR Tutsi dall’Uganda. L’occasione fu presa al volo dall’entourage di Habyarimana per fare pulizia di tutti i “nemici” all’interno del Paese. Furono preparate le liste: i Tutsi istruiti, i Tutsi benestanti, i Tutsi che viaggiavano all’estero e gli Hutu che erano detestati dal regime furono tutti arrestati in virtù del fatto che erano considerati “complici” del nemico. Nel nordovest, presso il confine zairese andarono oltre e ne massacrarono qualche centinaio.

 

 

Nel 1991 l’FPR conquistò Ruhengeri, nel nord del paese, città natale di Habyarimana e fu respinto in 24 ore dalle truppe governative con l’aiuto dei paracadutisti francesi.

Pochi mesi dopo l’ambasciatore degli Stati Uniti invitò Habyarimana ad abolire le carte di identità etniche, ma l’ambasciatore francese si oppose. Philip Gourevitch suppone che la Francia abbia sempre considerato l’Africa francofona “chez nous” e che in quel momento il nemico penetrato dall’Uganda risvegliò l’ancestrale fobia anglofona/anglosassone. Qualunque fosse stata la motivazione, non se ne fece nulla e Habyarimana, protetto sul fronte dall’amico francese, si concentrò sui residenti all’interno del paese continuando a cacciare e ammazzare altri Tutsi.

In quel periodo ci fu un fenomeno, abbastanza frequente, di persone che improvvisamente cominciarono a guardare ogni Tutsi, fino al giorno precedente amico, vicino di casa, compagno di lavoro, in modo differente.

Uno di questi, Froduald Karamira era un Tutsi che tempo prima riuscì ad ottenere documenti Hutu, diventò uno degli estremisti più in vista e, da neoconvertito, diede il nome al sinistro movimento dell’Hutu Power.

 

 

Tumulti

Poi, nel 1991 ci fu l’apertura al multipartitismo, costretto dall’esterno, ma difficile da attuare. Decine di partiti di cui la maggioranza erano fantocci del MRND, il partito unico del presidente, altri creati dall’akazu per confondere le acque. Uno solo rappresentava i Tutsi e gli altri si dividevano gli estremisti, tanto che il dibattito democratico si trasformò in rissa, divise ancora di più il Paese e si focalizzò sull’autodifesa Hutu. “Noi contro loro e chiunque non la pensi come noi è uno di loro”.

La crisi economica aveva reso disponibili decine di migliaia di giovani, privi di prospettive, logorati dall’inattività e pieni di rabbia che venivano reclutati nelle milizie civili, gli “interhamwe” dove praticavano il genocidio come fosse uno scherzo di carnevale. Una sera del 1992 la disinformazione comunicò attraverso la radio di stato l’esistenza di un piano Tutsi per massacrare gli Hutu, a cui seguì l’uccisione di trecento Tutsi in tre giorni.

 

 

Ci furono pressioni dall’estero per un cessate il fuoco, e per un accordo di pace, ma nonostante le varie disattese da parte di Habyarimana, che continuò con gli eccidi, gli aiuti internazionali seguitavano a fluire mentre Francia, Egitto e il Sudafrica dell’appartheid proseguirono il loro flusso di armi verso il Ruanda.

 

 

Propaganda

Finalmente il 4 agosto 1993, ad Arusha, in Tanzania, Habyarimana firmò un trattato di pace con l’FPR, decretando la fine della guerra. Gli accordi prevedevano l’integrazione dei due eserciti, un governo di transizione composto da tutti i rappresentanti politici e nuove elezioni presidenziali. Nel frattempo Habyarimana sarebbe rimasto presidente e nel periodo di transizione sarebbe stata presente una missione di pace delle Nazioni Unite.

L’FPR, che non aveva mai pensato di vincere, ma solo di arrivare ad una soluzione politica, era soddisfatto, al contrario per Habyarimana l’accordo di Arusha fu un suicidio politico, e l’Hutu Power lo definì un traditore e un complice.

Immediatamente dopo da Kigali cominciò a trasmettere una nuova stazione radiofonica fondata da esponenti dell’akazu e focalizzata sulla propaganda genocida, Radio Télévision Libre des Mille Collines (RTLM). Raggiunse in breve tutto il paese e divenne popolare con l’oratoria enfatica e le pop star dell’Hutu Power che cantavano pezzi inneggianti all’odio nei confronti dei Tutsi. Si scagliò anche contro le forze di pace della Missione di Assistenza delle Nazioni Unite in Ruanda (MINUAR) che considerava un mezzo per consentire all’FPR di prendere il potere.

 

 

In realtà nessuno aveva fiducia nella MINUAR, né l’Hutu Power che li riteneva “vigliacchi”, né i membri dell’FPR che nei mesi successivi agli accordi di Arusha avevano assistito all’umiliazione, all’impotenza e alla sconfitta delle missioni di pace dell’ONU in Bosnia e in Somalia.

Nel 1994 il Ruanda veniva ricordato dal resto del mondo come un esempio di caos e anarchia in una nazione in disfacimento, in realtà il genocidio è stato l’esito di decenni di indottrinamento, disciplina e moderna teorizzazione politica e ha avuto luogo in una delle nazioni meglio amministrate della storia. Nonostante sia divenuto un luogo comune che l’assassinio industrializzato dell’Olocausto abbia messo in crisi l’idea di civiltà e di progresso perché, si pensa, fu la tecnologia a permettere di uccidere tutti quegli ebrei, furono invece i tedeschi e non le macchine a uccidere. I leader dell’Hutu Power questo lo sapevano bene e sapevano che se convincevano le persone a brandire un machete, il sottosviluppo tecnologico non era più un problema perché l’arma diventava la persona. Se tutti venivano coinvolti, non ci sarebbe stata nessuna attribuzione di colpa, soprattutto perché pensarla diversamente significava essere complice del nemico.

 

 

Massacro

Il 6 aprile 1994 un missile terra-aria abbatté sopra la città di Kigali, l’aereo presidenziale con a bordo Habyarimana e il presidente del Burundi Cyprien Ntaryamira. Dopo averne dato notizia, la radio RTML, l’emittente dell’Hutu Power, accusò dell’attentato l’FPR e la MINUAR. Nella notte, mentre in Burundi i vertici delle Nazioni Unite assieme all’esercito trasmisero per radio appelli alla calma e riuscirono a evitare disordini, in Rwanda l’Hutu Power prese il potere con un colpo di stato.

La prima priorità fu quella di eliminare ogni tipo di opposizione, nella quale figurava anche il primo ministro, la cui casa fu circondata all’alba. Intervenne una pattuglia di dieci soldati belgi delle Nazioni Unite a cui fu imposto di gettare le armi. I belgi, in inferiorità numerica, furono costretti ad arrendersi, imprigionati, torturati e poi uccisi.

Da quel momento cominciò lo sterminio dei Tutsi, che da fonti unanimi era stato pianificato fin nei dettagli da tempo, con radio RTML che incitava tutto il paese alla carneficina degli “scarafaggi” Tutsi.

Massacro che durò ininterrottamente fino al 16 luglio.

Gli squadroni della morte, civili armati di fucili e machete, gli interahamwe, cominciarono a girare con liste di persone e famiglie da eliminare. Furono edificati posti di blocco dappertutto, non tanto per intercettare i Tutsi che cercavano rifugi nascosti, quanto per arruolare nuovi militanti perché il gioco al massacro ormai prevedeva solo vittime e carnefici.

E chi si rifiutava, diventava automaticamente complice e convivente con i Tutsi, quindi da eliminare. Fu così che l’organizzazione dei massacri si spostò a macchia d’olio in tutto il Paese.

 

 

Tralascio ulteriori dettagli di cronaca, mi soffermo solo sui numeri del genocidio per capire dove può portare la follia collettiva: un milione di morti in cento giorni, fanno 10.000 morti al giorno, ovvero 400 morti all’ora, pari a 7 morti ogni minuto. Una buona parte di queste persone fu assassinata con il machete.

 

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In mezzo a tutto questo sgomento, dove la vita dipendeva dall’aspetto fisico, dalle origini, dal documento di identità razziale, dalle idee e dalla follia di chi stava di fronte, le testimonianze dei casi di solidarietà umana assumono un significato enorme, perché chi l’ha adoperata ha rischiato la propria vita e per questo ne cito volentieri alcune.

La prima è già stata diffusa con il film “Hotel Rwanda”, dove all’Hôtel des Mille Collines, Paul Rusesabagina salvò 1268 persone fra Tutsi e Hutu moderati.

La seconda, a detta di testimonianze, l’unica comunità che si è comportata decentemente in mezzo alla pazzia è stata quella mussulmana. I mussulmani sono rimasti ai margini del genocidio cercando di salvare la maggior parte dei mussulmani Tutsi.

La terza riguarda Pierantonio Costa, Console italiano a Kigali che dopo aver messo in salvo tutti i compatrioti ed altri europei è tornato nell’inferno e forte della sua immunità diplomatica ha cercato di salvare più vite umane possibili (circa duemila) portandole fuori dal Paese. Questa vicenda è stata raccolta in un libro.

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