L’arma più subdola.

C’è una tribù, in Africa, che parla una lingua in cui esistono solo i concetti di uno, due, tre e molti… per i nativi di quella tribù qualsiasi quantità può essere solo 1, 2, 3 o molti e nonostante gli sforzi gli appartenenti a questa tribù sono incapaci di cogliere il concetto di numero definito qualora questo superi le “categorie mentali” stabilite dalla loro lingua madre.

Qualche tempo fa avevo proposto di fare, qui sul MC, una rubrica per il recupero degli ovini in fuga dal MoViMento in cui spiegare alcune materie che, stando alla produzione delle masse grilline, sono carenti in questi soggetti; si trattava di fare brevi corsi di educazione civica, scienze e via dicendo… tutto “ridotto” al loro livello, ovvero usando un italiano “limitato” per, come direbbe Panfilo Maria Lippi (una maschera di Daniele Luttazzi), venire incontro alle loro capacità mentali. In particolare gli articoli avrebbero dovuto:

  • contenere molte illustrazioni, con didascalie esplicative
  • utilizzare un vocabolario con pochissimi termini, senza sinonimi
  • utilizzare solo frasi brevi di uno o due periodi possibilmente senza subordinate
  • rinunciare ai tempi “complessi” limitandosi al solo indicativo presente

Beh, riflettendoci mi sono reso conto di come, involontariamente, avevo scalfito la punta di un iceberg di dimensioni titaniche che, probabilmente a causa dell’ambiente che ci circonda, viaggia allegramente sotto la linea di galleggiamento, pronto ad affondare il primo Titanic che gli si avvicina.

 

L’evoluzione dell’uomo.

Non sono un antropologo, men che mai un antropologo fisico / primatologo e non ho studiato l’argomento (anche se lo ritengo affascinante) ma nella mia ignoranza ritengo che fra i passi determinanti per l’evoluzione verso l’homo sapiens sapiens uno dei principali è quello che ha fornito all’uomo gli strumenti (corde vocali e strutture della gola) per parlare.

Parlare è un tratto distintivo dell’uomo, una scimmia non è in grado d’articolare parole perché non ha le strutture necessarie (polmonari e nella gola) per poter articolare suoni complessi in maniera continuata (nella pratica se una scimmia provasse a parlare quanto la vostra vicina di casa riuscirebbe ad emettere solo pochissimi suoni non intellegibili e dopo pochissimo tempo finirebbe stramazzata a terra in ipossia).

Sebbene molti altri strumenti ci hanno elevato fino a distinguerci dal resto del regno animale (pollice opponibile, posizione eretta, piede piatto) la parola è quella che più intimamente ci lega a quel che siamo oggi… la capacità di articolare in libertà fonemi e di poterli combinare fra loro in morfemi ha spinto il cervello ad evolversi per esprimere concetti sempre più complessi, fino alla fatale scoperta della parola prima e della scrittura poi…

 

Cosa siamo.

Il linguaggio è il primo vero grande esercizio mentale (e la chiave di volta per la crescita dell’individuo e per la maturazione) che ogni essere umano è costretto ad intraprendere per poter entrare nella società, per crescere.

In pedagogia l’evoluzione del linguaggio nei bambini è il modo più diretto per valutare l’età mentale dell’individuo e per saggiare eventuali deficienze o lacune nello sviluppo, che si compensano sia attraverso il linguaggio sia attraverso apposite “esperienze”.

Il “no”, l’intenzione condivisa, la triangolazione, il passaggio dalla terza persona (“Andrea vuole”) alla prima persona (“io voglio”), l’evoluzione dall’affermazione generica “ho fame” alla comunicazione “mamma ho fame” ed infine il passaggio dalla comunicazione stretta al dialogo sono indici della maturazione dell’individuo.

Il linguaggio (le strutture mentali che esso richiede) forma la nostra mentre… e noi stessi e noi siamo, almeno in parte, derivati della lingua che parliamo.

 

Il linguaggio come modello …e Clint Eastwood.

Pur non possedendo gli strumenti necessari per poterlo affermare con rigore scientifico io sono convinto che interi popoli debbano non tanto il loro modo di pensare (anche perché ogni individuo ha libertà d’esprimersi come meglio crede) quanto alcuni tratti distintivi propri come “sottoprodotto” della lingua che parlano.

Facciamo una digressione veloce: “Firefox – Volpe di fuoco” era un film con Clint Eastwood in cui una spia USA era mandata in URSS a rubare un aereo sperimentale che, nel film, aveva una funzionalità innovativa… si pilotava mentalmente… ok, bella trama per una spy-story ma quello che, a distanza di tempo m’è rimasto impresso è come nel film un grande peso venisse dato alla scelta della spia mandata a rubare l’aereo, in particolare alla frase “il pilota non dovrà pensare qualcosa e poi tradurla in russo, dovrà pensare in russo”.

Probabilmente nel film non c’era un ragionamento così profondo, tuttavia il punto è lì lo stesso… una persona non si limita a parlare una lingua, una persona pensa in quella lingua.

Ora mi tocca, nuovamente, fare a cazzotti con il sistema scolastico in genere, che impone (con un metodo rigorosamente corretto) d’imparare una lingua a partire dalle sue strutture grammaticali… si, è vero, a livello cosciente è possibile imparare una lingua alla perfezione conoscendo ogni rotella del delicato meccanismo che è una lingua in sé… ciononostante non è così che s’impara la propria lingua (la lingua madre) e non è così che si acquisisce quella proprietà di linguaggio viva e vitale tipica di chi conosce la lingua, quella freschezza che è tipica di chi ad un certo punto (probabilmente per aver spesso letto o parlato quella certa lingua) è in grado di parlare in una lingua perché sente scaturire naturalmente certe parole e certe strutture, come fossero innate in lui… questa mezza iattura che spesso mi porta ad usare parole e forme inglesi (non gergali) in frasi italiane semplicemente perché nel discorso che provo a fare mi viene più naturale e più istintivo usare quelle (in quanto occasionalmente più indicate) che le equivalenti italiane.

È un po’come quando, da lettore che tipicamente legge narrativa in lingua inglese, mi trovo a leggere qualche frase in inglese e mi rendo conto che chi scrive non scrive in inglese (seppure la frase sia corretta) ma scrive in un altra lingua (e credo d’essere capace di “riconoscere” l’italiano in inglese) traducendo poi la frase in un altra lingua.

Ok, sto divagando… tornando all’origine il punto è che spesso e volentieri un popolo è “vittima” della propria lingua, ad esempio si potrebbe dire che chi parla il tedesco tende ad essere molto preciso (fino alla pignoleria), chi parla il francese tende ad enfatizzare le emozioni e così via.

 

Noi siamo la lingua che parliamo.

Ovvio che (l’ho già detto sopra) non si parla in termini assoluti, ma una costante linguistica è, a mio avviso, presente e facilmente riscontrabile fino a quando si parla di gruppi numerosi di persone (in cui emerge una media) e non del singolo.

Noi siamo la lingua che parliamo… e se parliamo una lingua è ovvio che finiremo per pensare in quella lingua… o meglio ancora a concepire i nostri ragionamenti (e quindi le nostre priorità ed il nostro modo di vedere le cose) in funzione di quella lingua e degli strumenti mentali che essa ci mette a disposizione.

 

Lingua e hackers.

Girando spesso su internet ho notato che laddove c’è gente seria (ricercatori, hacker, programmatori e via dicendo) e divulgazione della conoscenza c’è un attenzione quasi maniacale nel modo d’esprimersi… non che il vocabolario sia per forza di cose complesso ma la cura del linguaggio è implicita (involontaria) e quasi maniacale.

Gli hacker poi (quelli veri) sono molto attenti all’eleganza dello scritto, fino ad arrivare, per certi versi, ad essere un po’snob.

In un mondo come quello informatico dove la parola parlata è (o meglio, era) non utilizzabile e tutto è scritto il modo di scrivere, di scherzare e di comunicare è dannatamente importante.

Chi volesse informarsi più dettagliatamente può iniziare leggendo gli jargon files.

 

Il climax.

Eccoci al punto: noi siamo la lingua che parliamo, ma quanto è vasta la nostra lingua ?

Niente da dire sull’italiano aulico, una delle lingue più complesse, musicali e ben strutturate al mondo… una lingua che permette d’esprimere un concetto in molti modi, che si distinguono per piccole sfumature della “nozione” che si tende di passare (e questo è, per certi versi, poetico visto che ci permette non solo di dire qualcosa ma di dirlo con “coloriture” che permettono di dare una profondità al pensiero che va oltre le mere parole).

Scusate la divagazione da linguista fallito (che non sono e non sarò mai visto che il mio indirizzo è tutt’altro)… il punto è che si, l’italiano è una lingua bella, vasta, versatile e per certi versi “artistica” ma quanta parte dell’italiano conoscono gli italiani ?

Orwell scalfiva il discorso riferendosi alla neolingua… in un Italia sempre peggio scolarizzata con un italiano sempre più povero e raffazzonato anche la mente più critica, quella più geniale si ritrova limitata dalla difficoltà insita nel definire appropriatamente qualcosa con pochi strumenti (parole, forme lessicali, modi e tempi).

Di contro in quest’ambito così povero è fin troppo facile dire poco e male e lasciare intendere qualcosa che non è senza mai, effettivamente, mentire.

 

Conclusioni.

Gibran diceva “Half of what I say is meaningless, but I say it so that the other half may reach you” io ho cercato d’indorarvi la pillola ma, se siete arrivati qui il grosso è fatto.

L’arma più subdola è la povertà lessicale, quella che limita (prima ancora della parola) la capacità di comunicare in modo articolato con il mondo e fa regredire l’individuo ad un nehanderthal capace di comunicare solo un numero limitato di espressioni, emozioni e stati d’animo e per questo triste e rabbioso in quanto incapace d’esprimere completamente ed esaustivamente quel che sente e che prova.

 

Se avete tempo pensateci su…

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