God Seiv De Quiin

Una delle mie passioni è l’animazione, ovvero i volgarmente detti “cartoni animati”; nel paese che voleva trascinare Goldrake in parlamento perché poteva traviare i bambini, istigandoli a fare a botte con gli amichetti annunciando in anticipo cosa avrebbero fatto (“calcio nei maroni!” “Maglio sul naso!”), equivale ad essere guardato come minimo con sospetto. Anche se i tempi stanno cambiando, e qualche blockbuster ha fatto conoscere al grande pubblico gli eroi della mia infanzia rendendoli cool, c’è ancora parecchio da fare per equiparare Koji Kabuto a Topolino.
Uno degli stratagemmi adottati negli ultimi tempi per rendere appetibili titoli di questo genere, generalmente considerati di scarso richiamo perché “da bambini”, è stato quello di affidare il doppiaggio non già ai professionisti del campo –universalmente considerati i migliori del mondo-, ma alle star televisive del momento. Rendendo, molto spesso, dei prodotti già poco interessanti sulla carta delle schifezze totalmente inascoltabili (se avete visto “Robots” doppiato da Francesco Facchinetti, sapete cosa intendo). L’ultimo esempio in ordine di tempo è stato il coinvolgimento nel film “Gladiatori di Roma” di Belen Rodriguez, uno dei più incomprensibili fenomeni mediatici del decennio, almeno per chi scrive.
La domanda è sorta spontanea: ma davvero c’è gente che va a vedere un film solo perché la voce di uno dei protagonisti è di Belen? E ancora: ma che ci trova la gente in Belen, nei comici di Zelig o, più in generale, nelle star del piccolo schermo, quasi sempre prive di vero talento e spesso destinate a sparire nel nulla nel giro di qualche mese?
Alla prima, la risposta pare essere sì, se davvero quasi tutti i miei conoscenti sono andati a vedere “Madagascar” perché “c’è la Hunziker ” (e dire che io ho schifato la saga proprio per la presenza della stalker meglio nascosta d’Italia). Sulla seconda questione, ci sono due scuole di pensiero.
Per alcuni, la scelta di utilizzare personaggi di richiamo anziché professionisti del settore con esperienze pluriennali risponde, oltre ad evidenti logiche commerciali, ad un più vasto piano di annichilimento delle coscienze già in atto da decenni. Si utilizzano cioè questi “artisti”, per veicolare costantemente il messaggio secondo cui, per essere “vincenti”, bisogna comportarsi il più possibile come loro, sia nell’apparire che nel comportarsi; merito e capacità non contano, l’importante è afferrare il successo con qualunque mezzo, lecito o meno, e tenerlo con ogni mezzo, lecito o meno. Diventano, insomma, dei punti di riferimento da imporre anche surretiziamente al pubblico, che alla lunga si identifica con loro finendo per parodiarne usi e costumi nella vita reale, alimentando un circuito malsano che sfornerà, di lì a breve, un nuovo fenomeno da baraccone con cui identificarsi, e via all’infinito.
Per altri, invece, è il contrario, o meglio: indubbiamente un certo tipo di intrattenimento ha culturalmente impoverito gli italiani, ma questi ultimi si sono dimostrati talmente ben disposti da finire con lo scavalcare la finzione scenica. Che adesso è costretta ad inseguire, diventando sempre più becera, sboccata e triviale non per rincretinire ulteriormente il pubblico, ma per seguirne i gusti, pena la scomparsa nel limbo mediatico e la riapparizione in qualche reality.
E’, certamente, una questione assimilabile al classico dilemma dell’uovo e della gallina, ma personalmente mi iscrivo alla seconda facoltà.
Sono infatti convinto che, se per primo l’artista emergente non si adatta al pubblico, difficilmente il pubblico potrà adattarsi a lui. Dove per “pubblico” intendo la fantomatica figura dell’Uomo Della Stada, capriccioso, vittimista, fondamentalmente ignorante e felice di esserlo, sempre pronto a delegare ed inveire contro questo o quel privilegio (altrui) ma a considerare i propri come “dirtti acquisiti” per cui sacrificare tutto e tutti.
E, soprattutto, sempre più sconnesso dalla realtà.
Da lui scopri, nel corso di serrate discussioni, che solo da noi i C.S.I. impiegano anni a risolvere i casi di omicidio, che Berlusconi non andrà mai in galera perché corrompe la giuria, e che l’unico modo per risolvere la situazione italiana è fare come in Inghilterra, dove la Regina comanda e decide tutto.
A quel punto, cerchi di restare serio il tempo necessario a spiegare che i C.S.I. risolvono i casi in 45 minuti solo su Italia 1(e che, comunque, in Italia senza numeri aggiunti abbiamo al massimo i R.I.S.), che non c’è alcuna giuria ai processi nostrani e che, ultimamente, la Regina Elisabetta al massimo ha deciso che Kate deve piombarsi le gonne per evitare che refoli di vento malandrini le sollevino, lasciando a Cameron –David, non Diaz- la gestione della cosa pubblica. Normalmente, queste precisazioni scatenano varie accuse, da “parli senza sapere le cose” a “ma allora dillo che voti Berlusconi/ Bersani/ Altro” a “e te che ne sai, che la tv neanche la guardi?”.
In effetti, sono appassionato di cartoni animati. Che ne so della vita vera?

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