Proposta di articolo su diritto del lavoro

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  • Questo topic ha 2 risposte, 3 partecipanti ed è stato aggiornato l'ultima volta 9 anni, 2 mesi fa da Anonimo.
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  • #12354
    Anonimo
    Inattivo

    Negli ultimi mesi si è parlato molto, nel dibattito pubblico, ma anche tra le persone, di jobs act, articolo 18, Statuto dei lavoratori, licenziamenti. Ma sappiamo davvero di cosa stiamo parlando?
    Tutte queste parole attengono a una branca dell’ordinamento giuridico, che è nota come Diritto del Lavoro. In pratica si tratta di quella parte dell’ordinamento che disciplina i rapporti di lavoro, ma anche il sistema degli ammortizzatori sociali e l’organizzazione pubblica che sovraintende a tutto questo.
    Il Diritto del Lavoro nasce alla fine dell’800 per rispondere ai crescenti problemi sociali posti dalla Rivoluzione Industriale, rispetto ai quali gli strumenti tradizionali del diritto privato non fornivano risposte adeguate. Infatti il rapporto di lavoro si contraddistingue, rispetto alle forme contrattuali tradizionali, per il fatto che le parti non si trovano su un piano di parità. Quindi il lavoratore non può realmente negoziare con il datore come se avessero la stessa capacità di contrattare. Politicamente fu merito dei partiti socialisti, con il supporto degli strati più progressisti della borghesia liberale, quello di promuovere le prime leggi a tutela del lavoratore.
    Quste legislazioni si sono potensiate tra le due guerre e poi hanno conosciuto uno sviluppo inarrestabile dopo la Seconda Guerra Mondiale, in concomitanza con lo sviluppo del Welfare State.
    Veniamo all’Italia. Una diciplina del rapporto di lavoro era contenuta nel Codice Civile, risalente al 1942, contenente disposizioni corporative, tipiche dell’era fascista, poi abrogate, e diverse disposizioni a tutela del prestatore di lavoro. Per esempio l’art. 2087 sulla tutela delle condizioni di lavoro, o l’art. 2103 sulle mansioni, o ancora l’art. 2113, che consente al lavoratore di impugnare, entro sei mesi, tutti gli atti di rinuncia o di transazione che non abbia sottoscritto avanti al giudice, al sindacato o all’ufficio del lavoro. Inoltre il codice civile prevedeva che la risoluzione del rapporto potesse avvenire per giusta causa, ovvero un fatto di gravità tale da impedire che il rapporto possa continuare, oppure per gli altri motivi stabiliti dalle norme corporative (leggi poi contrattazione collettiva dopo il periodo bellico). Al di fuori della giusta causa, l’unica tutela del lavoratore era l’obbligo del preavviso, quindi diciamo che, da questop unto di vista, era alquanto scoperto.
    Nel 1966 arriva la prima legge che disciplina il licenziamento in generale. Si stabilisce il principio che il licenziamento possa avvenire solo in tre casi: giusta causa, giustificato motivo soggettivo e oggettivo. Nel primo caso esso può avvenire in tronco, senza preavviso, ma la giurisprudenza chiarisce che esso abbia carattere eccezionale, trattandosi appunto di un fatto estremamente grave. Non sono mai stati codificati quali fatti o tipologie di fatti potessero motivare tale licenziamento, quindi è il giudice che lo stabilisce di volta in volta. Questa discrezionalità ha portato, nel tempo, a risultati paradossali: vi sono stati casi, ad esempio, in cui i giudici hanno ritenuto che il furto in azienda non costituisse giusta causa. Ed, ovviamente, spesso la giurisprudenza è diversa da tribunale a tribunale o da regione a regione, su questo punto. Nei tribunali più grandi, poi, vi possono essere orientamenti diversi anche all’interno della stessa sezione lavoro.
    Il licenziamento disciplinare tipico è, invece, quello per giustificato motivo soggettivo, che viene definito dalla legge come un grave inadempimento agli obblighi del prestatore di lavoro. La legge del 1966 prevede una procedura, cui il datore di lavoro è tenuto, a pena di invalidità del licenziamento intimato, con anche garanzie di difesa per il lavoratore. Lo stesso vale anche per sanzioni disciplinari più lievi. Vale la pena sottolineare che viene anche stabilito il principio per cui l’onere della prova della sussistenza del giustificato motivo o della giusta causa grava sempre sul datore di lavoro. Infine il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, detto anche licenziamento economico: quello motivato da ragioni inerenti all’attivita’ produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa. La formula è alquanto stringata e ha dato luogo a una congerie di interepretazioni, tanto in dottrina, quanto in giurisprudenza. Comunque la gran parte della giurisprudenza si è sostanzialmente collocata sul punto per cui il licenziamento economico sarebbe legittimo solo in caso di crisi dell’impresa. Questa impostazione è stata spesso oggetto di critica da parte di chi sosteneva e sostiene che il motivo economico non può essere ricondotto solo alla crisi di impresa, che, giuridicamente parlando, costituisce il presupposto per l’applicazione delle procedure concorsuali (fallimento, concordato, amministrazione straordinaria, ecc.). La legge introduce, per la prima volta, una tutela specifica contro il licenziamento illegittimo. Si tratta della cosiddetta tutela obbligatoria, secondo la quale il datore di lavoro viene condannato al pagamnento di un’indennità compresa tra le 2,5 e le 6 mensilità calcolate sulla retribuzione di fatto del lavoratore. In casi particolari tale indennità può salire sino a 10 e 14 mensilità.
    Arriviamo infine al 1970. In quell’anno viene approvata la Legge n. 300, meglio conosciuta come Statuto dei Lavoratori. La legge viene votata dalla maggioranza di centrosinistra e il suo padre riconosciuto è l’allora Ministro del Lavoro, il socialista e giuslavorista Gino Giugni. Interessante è il fatto che il PCI invece votà contro.
    La legge contiene disposizioni molto importanti, ad esempio in materia di libertà sindacale e di espressione dei lavoratori, stabilisce una serie di obblighi a carico del datore di lavoro. Essa è tuttavia nota al grande pubblico soprattutto per una singola disposizione, l’articolo 18, che introduce un nuovo modello di tutela del lavoratore a fronte del licenziamento illegittimo: la cd. tutela reale, limitandola però alle imprese che abbiano alle loro dipendenze più di 15 lavoratori. La tutela reale prevede che, in caso di licenziamento illegittimo, il lavoratore debba essere reintegrato dall’impresa, che dovrà anche corrispondere un’indennità pari al numero di mensilità intercorrente tra la data d’intimazione del licenziamento e quella del reintegro. In pratica, se viene comminato un licenziamento, poniamo nel maggio del 1970, il lavoratore vince la causa nel giugno del 1971, il reintegro effettivo avviene nel settembre dello stesso anno, al lavoratore dovranno essere corrisposte tutte le retribuzioni dal maggio del 1970 sino al settembre del 1971. Se il lavoratore rinuncia al reintegro, egli ottiene un’indennità pari a 15 mensilità, che si aggiunge a quella precedente. Dal punto di vista della tecnica legislativa l’articolo 18 è scritto abbastanza male: molto contorto, esso presenta anche dei profili di dubbia costituzionalità. Ad esempio, per il fatto di ancorare la quantificazione dell’indennità di licenziamento a tempi che non rientrano necessariamente nella responsabilità del datore. In caso di impugnazione del licenziamento, essa diventa dacilmente di 30-40 mensilità. Successivamente altre leggi estenderanno la tutela reale a tutte le imprese, in casi particolari, come il licenziamento discriminatorio o quello intimato alla donna nel periodo della gravidanza e dell’allattamento. Nel 1991 arriva anche la prima disciplina sui licenziamenti collettivi, che poi sarà successivamente emendata. sinteticamente essa prevede una specifica procedura quando l’impresa, per motivi comprovati di difficoltà economica, debba effettuare una riduzione del personale. La procedura vede il coinvolgimento delle rappresentanze sindacali e della pubblica amministrazione. Anche ai licenziamenti collettivi è applicabile l’articolo 18.
    La disciplina sui licenziamenti resta, praticamente inalterata, fino al 2012. Al potere c’è il Governo Monti che propone un progetto di riforma del mercato del lavoro che investe anche l’articolo 18. Il Presidente del Consiglio, Mario Monti, è un noto sostenitore della flex security danese, ma alla fine il progetto presentato, sarà molto meno ambizioso e non modificherà la disciplina vigente se non in profili residuali. Comunque viene modificato anche l’articolo 18, in peggio. Nel maldestro tentativo di creare un sistema di tutela “alla tedesca”, si incrementa il già ampio potere discrezionale del giudice. Accanto alla tutela reale piena, che è quella che già conosciamo, prevista per i licenziamenti discriminatori, viene introdotta una tutela reale attenuata, in cui è il giudice a decidere se vi può essere reintegro oppure no, e una tutela obbligatoria rafforzata, con indennità più elevate. In pratica, diventa davvero difficile orientarsi. Nel dicembre del 2014 arriva il Decreto Legislativo sulle tutele crescenti, voluto dal Governo Renzi, in attuazione di una delega legislativa approvata nei mesi precedenti dal Parlamento. Il nuovo decreto riorganizza la disciplina dei licenziamenti, semplificando il caso normativo. Esso tuttavia trova applicazione solo per i contratti stipulati dopo la sua emanazione, creando quindi un doppio binario tra vecchi e nuovi contratti. Meglio sarebbe stato, sul piano sistematico, applicare la nuova disciplina a tutti i contratti. Ma, ovviamente, ragioni di carattere politico hanno spinto a questa scelta.
    Dopo questa lunga digressione storica, necessaria secondo a me a comprendere meglio la difficoltà della materia, vediamo di chiarire che cosa accade oggi in caso di licenziamento.
    Se il contratto è stato sottoscritto prima dell’emanazione del decreto, si applicano le vecchie disposizioni, quindi tutela obbligatoria (2,5-6 indennità) in generale, art. 18 se l’impresa possiede oltre 15 dipendenti. Quindi per loro tutto è rimasto fermo alla Riforma Fornero. Per i nuovi contratti le cose cambiano, vediamo come.
    In caso di licenziamento nullo, discriminatorio o intimato oralmente, il datore di lavoro è condannato alla reintegrazione del lavoratore, oltre al pagamento di un’indennità “commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative”, comunque non inferiore a cinque mensilità. Dovranno inoltre essere versati tutti i contributi previdenziali per lo stesso periodo. Il lavoratore può, in alternativa, al reintegro chiedere un’indennità pari a 15 mensilità.
    Al di fuori di questi casi, se il licenziamento è dichiarato illegittimo per carenza della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo o oggettivo il datore di lavoro è condannato a pagare un’indennità non inferiore a 4 e non superiore a 24 mensilità.
    Esclusivamente nel caso di licenziamento disciplinare, se in giudizio viene dimostrata l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, il datore di lavoro è condannato al reintegro e al pagamento di un’indennità non superiore a 12 mensilità. Anche in questo caso il lavoratore potrà optare per l’indennità sostitutiva di 15 mensilità.
    Se il licenziamento è intimato in violazione delle norme procedurali stabilite dalla legge del 1966, il datore viene condannato al pagamento di un’indennità compresa tra le due e le dodici mensilità (a meno che il giudice non accerti l’applicabilità delle tutele di cui sopra).
    Il datore di lavoro, per evitare il giudizio, può formulare un’offerta di conciliazione, entro i termini dell’impugnazione, che preveda un’indennità compresa tra le due e le diciotto mesilità.
    Per le imprese, che non integrano il requisito dimensionale previsto dall’art. 18, e per le organizzazioni di tendenza non si applica il reintegro per insussistenza del fatto in caso di licenziamento disciplinare, ma solo in caso di licenziamento discriminatorio nullo, discrimatorio o intimato in forma orale. Negli altri casi è stabilità un’indennità massima pari a 6 mensilità. Il decreto non esclude l’applicazione della legge del 1966, quindi ritengo che siano ancora vigenti le disposizioni che prevedono l’innalzamento di tale indennità sino a 10 e 14 mensilità in casi particolari.
    Infine il decreto stabilisce che esso si applichi anche ai licenziamenti collettivi.

    #12359
    LanaCaprina
    Partecipante

    Bene, bravo, bis.
    Io aggiungerei qualcosa sulla disciplina dei licenziamenti collettivi, magari in un altro articolo.

    #12385
    Anonimo
    Inattivo

    flex solo flex sad flex

    L’incedere dello scritto , oltre che riflettere l’evidente spessore da “addetto ai lavori” di chi lo scrive , ha un evidente fil rouge.

    E cioè quello di evidenziare , da una parte la complessità della norma contorta del “passato” e di contro la recente “semplificazione” attuale.

    E in effetti il nuovo decreto riorganizza la disciplina dei licenziamenti, sopratutto quando effettuati per un motivo “non giusto” , oppure “senza motivo” ,semplificando il caso normativo.

    I “Lacci e lacciuoli” , che abbiamo sentito mille volte, in altre parole il termine “semplificazione” , si riducono in questo caso a ridurre drasticamente delle tutele , per alcuni attori del rapporto di lavoro.

    Poichè è pressochè impossibile il “tecnicismo puro” , è quindi evidente come il valore “semplificazione”, declinato in questo modo venga preferito anche da chi scrive.Purtroppo non è il solo a farlo.

    In generale infatti,il numero dei reintegri per licenziamento senza giusta causa, sono veramente pochi , e già oggi , la stragrande maggioranza ,pur vincente in giudizio,e quindi licenziata arbitrariamente , sceglie solo il compenso monetario.(1)

    Visti questi numeri , Sono davvero questi reintegri il problema ?

    Invece addirittura ci si spinge a considerare la reintegra come un retaggio ideologico, e nel farlo ci si ammanta a propria volta di ideologia,constatando le cifre dei riammessi al lavoro di cui parliamo ( è un problema che interessa pochi , dice addirittura l’Esponente della Presidenza del Consiglio).

    Il nodo che viene ignorato, spesso giocando sul fatto che tale garanzia , poichè si applica in aziende con piu’ di 15 dipendenti , interessi solo il 3% delle aziende , riguarda invece,e sopratutto per il suo valore deterrente rispetto ad un’arbitrarietà , piu’ di 7 milioni di lavoratori dipendenti, il 65% del totale.

    Tale nanismo imprenditoriale italiano, si continua a dire, era dovuto al “timore di non poter licenziare”.

    Guardando i numeri però, tale ipotesi si rivela infondata, poichè il numero medio di addetti per azienda è di 3 dipendenti, ben lontano dai 15 che avrebbero fatto scattare le tutele previste dall’art 18.E’ evidente che il “timore di assumere è di certo non causato dall’impossibilità a licenziare.

    Già si è scritto sugli effetti dubbi che la precarizzazione ha sulla crescita economica,specialmente quando tali facilitazioni sono del tutto cicliche alla congiuntura economica , in risposta ad altri autori che trattavano in modo di gran lunga piu’ sommario il tema (2) .Recentemente inoltre,le stime che il Governo comunica all’Unione Europea , parlano di un effetto di neanche un punto percentuale di PIL in un quinquennio (3).

    Altro che ”

    numeri sulla disoccupazione preoccupanti, subito il Jobs Act

    “.Purtroppo credo, il futuro farà ragione, a spese di molti.

    Oltre la motivazione ideologica, in tipico stile lasseiz fair , una spiegazione interessante viene proposta qui.(4)

    In particolare alcune osservazioni sull’articolo.

    A) La disciplina sui licenziamenti resta, praticamente inalterata, fino al 2012

    .

    Probabilmente per questioni di brevità si tralascia di citare, il collegato lavoro del 2010 , che in analoga direzione modifica alcuni aspetti del licenziamento ingiusto che potevano essere impugnati dal lavoratore (4b) e anche molti aspetti dei contratti a tempo determinato: se infatti in molti casi in fatti il datore di lavoro, poteva assumere a termine apponendo delle motivazioni ben precise( es personale in ferie o ristrutturazione dell’azienda) , pena la trasformazione del contratto in uno a tempo indeterminato , si abolì la reintegra anche per questa fattispecie, sostituendola anche in questo caso con un’indennità monetaria.

    A questa ulteriore legittimazione giuridica del lavoro precario, che è sempre una “semplificazione”, nel tempo approda anche il cosiddetto decreto Poletti , che è sostanzialmente integrato nel Jobs Act, abolendo la necessità di causale per l’assunzione a tempo Indeterminato e permettendo il rinnovo di contratti saltuari sino ad periodo di 36 mesi da parte dello stesso committente.Null’altro che la proposta Sacconi Casini, che scatenò perfino le critiche di uno degli Autori del contratto unico (5 )

    B)

    Mario Monti, è un noto sostenitore della flex security danese,

    Non è tanto Monti ad essere avvezzo al modello danese, ma il collegamento fra quella e questa riforma è l’influenza del giuslavorista Ichino.In quel periodo uscì, dopo le primarie dal Partito Democratico ( oggi ritorna).E’ stato dimostrato che nel frattempo scrivesse parti intere di programma per il partito del Dottor Monti.

    Sul modello Danese, e relativi approdi “all’italiana”, vedi la parte finale qui (2 , parte finale)

    C) “Esso tuttavia trova applicazione solo per i contratti stipulati dopo la sua emanazione, creando quindi un doppio binario tra vecchi e nuovi contratti. Meglio sarebbe stato, sul piano sistematico, applicare la nuova disciplina a tutti i contratti. Ma, ovviamente, ragioni di carattere politico hanno spinto a questa scelta.”

    Quindi rimane sostanziale dualità.Altro che “apartheid”. E la semplificazione?

    Si cita in generale, una “opportunità politica” , che ci spiega Ichino ;

    https://pbs.twimg.com/media/B-cpsNtCAAA7MgZ.jpg

    il fine è proprio quello di creare altra dualità di fatto accentuando il solco fra vecchi e nuovi , per poi “ritornarci”, normando anche questa parte restanti di lavoratori, che si troverà isolata, poichè giocoforza avranno un trattamento differente rispetto agli altri lavoratori con il contratto a “tutele crescenti”.Per alcuni , come abbiamo detto , anche a rischio Costituzionalità.

    Quindi , sia a livello di contrattazione che di intento futuro, il JA interessa tutti ( interesserebbe anche per il demansionamento, potenzialmente causa mobbing, che riguarda anche i vecchi assunti, ma non è questa l’occasione per parlarne).

    D)Al di fuori di questi casi, se il licenziamento è dichiarato illegittimo per carenza della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo o oggettivo il datore di lavoro è condannato a pagare un’indennità non inferiore a 4 e non superiore a 24 mensilità.

    Questo è un nodo centrale.

    i) Spesso citano a sproposito le eventuali ritorsioni in caso di reintegro, che renderebbe la vita impossibile.

    Quasi per aiutarlo ad avere una vita migliore, il legislatore decide di “semplificare” ( questa parola assume un significato ideologico ben preciso) togliendolo dall’impasse, levandogli la possibilità di scegliere fra reintegro e o indennità, come avviene, attualmente in altri Stati Europei.

    Mi chiedo infatti se tale motivazioni , ventilate strumentalmente( io le sentii proprio per la prima volta , proprio sul tema , da Brunetta dei tempi d’oro) , non valgano per gli altri sistemi legislativi esteri che che invece lo prevedono.

    ii)Altro aspetto , è reclamare l’arbitrarietà del Giudice, come approdo “naturale” a questa soluzione.

    Praticamente si suggerisce che in ogni argomento dove i giudicanti si esprimono in maniera discorde (e sono tantissimi, come sappiamo) , basta “semplificare”, normando in modo che tale argomento no sia passibile di perlopiu’ nessun giudizio di merito!

    iii) Altro argomento che si adduce è la mancanza di fiducia: cioè che anche se un terzo ha stabilito,con tutti i contrappesi che la causa addotta è ingiusta, il datore di lavoro “non abbia piu’ fiducia” nel lavoratore , rendendo impossibile la continuazione del rapporto di lavoro.

    Che dire,: prima si viene trascinati o in tribunale per un fatto che si dimostra inesistente, e poi si invoca un aspetto poco tangibile come “la fiducia”. Logica vorrebbe che se l’accusa/causa di licenziamento non sussista, la fiducia si ripristini, almeno nelle persone ragionevoli, su quel determinato accadimento, sopratutto se il lavoratore aneli a continuare a lavorare.Altrimenti questo atteggiamento , che maschera un retro-pensiero lo si chiami con il proprio nome : pretestuosità . Senza contare che influisce anche la grandezza organizzativa , dove questa procedura si attua, al massimo a “perdere la fiducia” sarà l’ X dirigente , che di contro, avrà adesso un potere di “persuasione al ricatto” , di molto aumentato.

    C’era perfino chi accettava il campo della “semplificazione” ( come abbiamo detto parola insidiosa, che nasconde spesso un’azzeramento delle tutele) , rispetto all’arbitrarietà data dallo squilibrio fra capitale e lavoro: e cioè aumentare la “viscosità” o, e cioè alzando di molto gli indennizzi per i licenziamenti senza giusta causa, per determinate tipologia, preservandone quindi l’aspetto deterrente .

    Chiaramente caduta nel vuoto.

    E) Esclusivamente nel caso di licenziamento disciplinare, se in giudizio viene dimostrata l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, il datore di lavoro è condannato al reintegro e al pagamento di un’indennità non superiore a 12 mensilità. Anche in questo caso il lavoratore potrà optare per l’indennità sostitutiva di 15 mensilità.

    Significa che anche per infrazioni lievi, il Giudice non potrà piu’ entrare nel merito della proporzionalità della sanzione.Altro che Beccaria”

    Per semplificare saranno possibili i casi : “Oggi sei arrivato in ritardo , ti licenzio.”

    Spetterà al lavoratore l’onere della prova per dimostrare la pretestuosità di tali motivazioni.Di fronte ad un giudice, da licenziato.

    Se il licenziamento è intimato in violazione delle norme procedurali stabilite dalla legge del 1966

    (fra l’altro in parte modificato già dalla Fornero),

    il datore viene condannato al pagamento di un’indennità compresa tra le due e le dodici mensilità

    Cosa vorrà dire?

    Semplicemente che il datore di lavoro potrà saltare a piè pari per esempio , che “La comunicazione del licenziamento deve contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato”.

    E cosa affatto marginale si evita anche l’articolo 5 di a tale legge , secondo cui “spetta al datore di lavoro l’onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo” .

    Questo aspetto specifico ( e anche altri) , secondo alcuni è a rischio Costituzionalità, prestandosi anche a situazioni paradossalmente kafkiane, dove per esempio in caso di accusa di furto ,in sede processuale, sarebbe il lavoratore a dover provare la sua innocenza , con l’onere di inversione della prova.(6)

    F) Per le imprese, che non integrano il requisito dimensionale previsto dall’art. 18, e per le organizzazioni di tendenza non si applica il reintegro per insussistenza del fatto in caso di licenziamento disciplinare, ma solo in caso di licenziamento discriminatorio nullo, discriminatorio o intimato in forma orale.

    Ergo, per i lavoratori impiegati nelle piccole aziende (sotto i 15 dipendenti) , la causa rimane pressochè la qualunque.Alla faccia di chi voleva cancellare le disparità.

    G) Licenziamenti collettivi

    L’Autore non scende nel dettaglio.

    Addirittura qui , il datore di lavoro può fregarsene anche del Contratto Nazionale, nei casi dove preveda esplicitamente le procedure da avviare per i licenziamenti collettivi ( la famigerata mobilità , che si sente ai tg) vengono meno una serie di procedure che garantivano il lavoratore.E che spesso hanno salvato posti di lavoro.Tale procedura ,oltre che l’apertura delle trattative, prevedeva vari procedimenti:

    In particolare , per esempio si poteva avviare una vertenza che preveda i contratti di solidarietà,o un qualsiasi accordo tra le parti oppure una procedura tipo quella dell’Electrolux, che con le nuove disposizioni sarebbe di impossibile realizzazione :Oppure ancora ancora la turnazione della CIG, permettendo di non chiudere l’azienda.O ancora il coinvolgimento di tavoli di trattative.
    inoltre:

    Nella comunicazione l’impresa deve chiarire anche quali misure intende mettere in atto per eliminare o ridurre l’impatto sociale che deriva dai licenziamenti. Questo aspetto è particolarmente importante nelle ipotesi in cui il licenziamento collettivo riguarda grandi società che occupano molti lavoratori in un determinato ambito territoriale e il numero dei dipendenti interessati dal licenziamento è elevato

    “.(cit 7 )

    Tutto finito.Un bel sospiro di sollievo sia per il datore di lavoro che anche per la parte Istituzionale:un bell’indennizzo e collettivamente, tutti a casa. E dire che proprio di tali “tavoli di salvataggio” si vantavano molti politici, oggi approdati a queste scelte.

    Non di meno , il legislatore ha pensato di sanare con un indennizzo monetario anche oltre che l’inosservanza dei criteri su CHI licenziare, saltando a piè pari quanto contrattato collettivamente oppure in mancanza di questo, tenere in considerazione fattori come carichi di famiglia,l’anzianità del lavoratore e anche le esigenze tecniche, produttive e organizzative dell’impresa.

    Fa bene ricordare che nella proposta Fornero invece, licenziamento collettivo con la violazione dei criteri di scelta ,prevedeva “la reintegrazione nel posto di lavoro, più il risarcimento del danno e il versamento dei contributi previdenziali fino a 12 mensilità .

    Nel complesso è lecito avere dubbi di come una norma prevalentemente votata alla libertà di licenziare possa essere volano dall’economia( anche se solo a parole si è propalato tale tesi).

    inoltre come è evidente, la sbandierata e ottenuta “semplicità”, altro non è che un’ulteriore aumento del tasso di precarietà ( vedremo i prossimi indici EPL) , in perfetta continutà con alcune scelte di questi anni, e che invece richiederebbero una dose maggiore di critica, proprio per la situazione che hanno prodotto.

    Ancora nell’ombra inoltre ,i costi demandati alla collettività ,che per produrre risultati minimi dovranno essere gioco-forza ingenti.

    (1) http://www.lastampa.it/2014/09/27/italia/politica/ogni-anno-mila-licenziamenti-solo-un-quarto-torna-in-azienda-pmUMGZCCKDUPjqIybFcO3J/pagina.html
    (2) http://movimentocaproni.altervista.org/blog/forums/topic/bozza/#post-11119
    (3) http://www.euractiv.it/it/news/economia-finanza/10791-riforme-governo-a-ue-cronoprogramma-e-impatto.html
    (4) http://www.ildiariodellavoro.it/adon.pl?act=doc&doc=54293#.VO2kuNSG9pg
    (4b) http://www.treccani.it/enciclopedia/impugnazioni-e-decadenze-nel-collegato-lavoro-il-nuovo-regime-delle-impugnazioni-e-delle-decadenze_%28Il_Libro_dell%27anno_del_Diritto%29/
    (5) http://www.lavoce.info/archives/18213/governo-lavoro-contraddizione/
    (6) http://www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_17295.asp
    Fezzi http://www.wikilabour.it/GetFile.aspx?File=/Jobs-Act/Speciale-JobsAct_Editoriale-Fezzi.pdf&Provider=ScrewTurn.Wiki.FilesStorageProvider

    (7) http://www.dirittierisposte.it/Schede/Lavoro-e-pensione/Licenziamento-e-dimissioni/licenziamento_collettivo_id1112530_art.aspx#Il

    Schema decreto legislativo JA http://www.governo.it/backoffice/allegati/77929-10027.pdf

    Un Giuslavorista , Fezzi:
    Fezzi http://www.wikilabour.it/GetFile.aspx?File=/Jobs-Act/Speciale-JobsAct_Editoriale-Fezzi.pdf&Provider=ScrewTurn.Wiki.FilesStorageProvider

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