Cinema Totalitario I: Il cekista

Inauguriamo un ciclo di brevi recensioni su film a volte tragici, a volte sarcasticamente buffoneschi, a volte tragicomici, alcuni molto noti, alti meno, sul tema del totalitarismo. Molti film vengono da quei Paesi che hanno potuto assaporare le gioie del comunismo, dalla corsa al supermercato per assicurarsi la carta igienica quando disponibile, alla necessità di tenere la bocca chiusa per non finire in un cimitero. Comunismo e Nazionalsocialismo, espressioni di ideologie che anteponevano la società all’individuo, hanno finito per creare un mondo in cui ogni cittadino diffidava degli altri, e quindi anche dello Stato e della società. Non solo perché, per citare Varlam Aravidze, protagonista dello splendido film “Pentimento” di cui parleremo in altra occasione, “per ogni quattro persone che conoscete, tre sono nemici,“ ma soprattutto perché, anche nel vivere quotidiano, si era convinti che non ci si potesse fidare di nessuno, atteggiamento che tuttora in parte sopravvive, come ci ricorda Leonid Bershidsky in un ottimo articolo apparso di recente.

Cominceremo con un film durissimo, che mostra senza alcun velo l’oscenità della violenza e della repressione. Si tratta di “Il cekista” (Чекист), film russo del 1992 diretto da Aleksandr Rogozhkin, recentemente scomparso. Come altri film che presenteremo, anche questo uscì in una breve parentesi di libertà culturale seguita alla caduta del regime sovietico. Oggi sarebbe estremamente difficile girare un film del genere in Russia, in un clima di conformismo intellettuale imposto. Per quanto la Russia attuale sia molto diversa da quella sovietica, pure il regime di oggi non ama le critiche di quello di ieri. Oggi la Russia non si interroga più criticamente sul passato, ma lo mitizza: cancella la memoria delle persecuzioni staliniste come i gulag, e chiude l’associazione Memorial International, che si occupa di mantenere vivo il ricordo dei crimini comunisti, mentre Putin si diletta di revisionismo storico.

Il film racconta la storia di Andrey Srubov, un ufficiale cekista, negli anni immediatamente seguenti la Rivoluzione d’Ottobre, uomo che sacrifica se stesso per assolvere il suo compito. E qual è il suo compito? Condannare a morte gente che per lui sono solo nomi in liste interminabili, della cui storia nulla sa, e i cui presunti crimini a nessuno importano, e procedere all’esecuzione delle sentenze. Uomini e donne vengono obbligati a spogliarsi nelle docce di quella che forse era una miniera, e lì vengono fucilati. I corpi vengono ammassati nudi in carrelli e portati via. Simili scene si ripetono spesso, e il ribrezzo dei corpi nudi delle vittime si fonde nello spettatore al ribrezzo della burocratica ripetizione di tali eventi: una cosa e l’altra sviliscono la vita umana, e sembra quasi che l’Uomo sia poco più di una carcassa di animale. Eppure Srubov non è un maniaco, e quando ne ha l’opportunità mostra clemenza, perché “la Rivoluzione è vita.” Alla fine, il peso delle sue azioni porterà il protagonista alla follia, internato, e l’immagine di lui nudo mentre viene lavato ci ricorda quella delle sue vittime prima della fucilazione. Questa sua umanità ci deve far riflettere: che cosa spinge una persona mite e non incline alla violenza, trasformandola in un carnefice? La risposta probabilmente ce la fornisce il contesto del racconto da cui il film è tratto.

Il film è una trasposizione estremamente fedele del racconto “La scheggia” di Zazubrin (pubblicato in Italia presso Adelphi). Il racconto è del 1923, anche se sarà pubblicato solo nel 1989. Il sottotitolo del libro è “Lei e ancora Lei.” Lei è la Rivoluzione. L’ossessione del protagonista è un’ossessione d’amore per Lei. Non è allora la ferocia a muovere Srubov, ma la sua generosità, il suo idealismo, il desiderio di un mondo migliore. Purtroppo, questo mondo migliore si può realizzare solo creando una montagna di cadaveri.

(Foto: Feliks Dzierżyński, da Wikimedia Commons)

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