Serenissima – società e territorio

La Repubblica di Venezia si contraddistinse per l’erezione di un gran numero di chiese fin dai primi secoli in cui i rifugiati dalle invasioni barbariche ripararono nelle lagune. Un po’ per ragioni votive, ma anche per ospitare il gran numero di reliquie di santi, prima salvati dall’orda barbara nelle antiche chiese venete, poi trafugati in Oriente. A Torcello era sorta la chiesa di Santa Fosca, rimaneggiata, ma ancora esistente, a Murano quella di Santa Maria, a Caorle lo splendido duomo il cui campanile cilindrico è ancora esistente. Proprio per questo, nonostante già dagli inizi l’attrazione della moltitudine si rivolse verso la città, la periferia del ducato non rimase depressa, né economicamente inerte. Le fondazioni monastiche, i conventi contribuirono a mantenere vivo ogni centro periferico. Molti figli dei nobili oltre i primogeniti erano predestinati alla vocazione religiosa, i maschi per gestire conventi, le femmine prendevano i voti religiosi come suore, portando con sé le doti, oltre ai vari testamenti, che arricchivano ed espandevano l’influenza delle varie fondazioni.

 

Naturalmente la periferia fu oggetto di molte trasformazioni, dovute alle guerre e alle rappresaglie che la Repubblica subì nei secoli, ciò nonostante la conservazione delle lagune fu sempre una priorità per la sopravvivenza, come agli inizi quando i ripetuti attacchi a Cittanova avevano provocato l’abbandono della città che a sua volta aveva causato l’impaludamento della sua zona lagunare da parte del Piave. I boschi e le selve crescevano dappertutto, ma la legge proibiva il taglio dei boschi litoranei perché facevano da riferimento ai piloti e in quella sottile striscia di boschi, fra Altino e Mestre, si praticavano la caccia e l’uccellagione, mentre nei canali si pescava e si allevava il pesce come ai giorni nostri. La periferia viveva di vita propria, una vita modesta interrotta solo da processioni e pellegrinaggi nei giorni di festa quando le acque si riempivano di barche (usanza ancora in uso annualmente a Grado verso il santuario mariano dell’isola di Barbana) ma in occasione dell’elezione del doge, a Venezia confluivano barche piene di gente da ogni angolo remoto del territorio lagunare.

 

Duomo di Caorle

Duomo di Caorle

 

Nella città, tra i secoli XI e XII vennero costruite una settantina di chiese, si cominciò ad erigerle non solo in riva ai canali, ma anche all’interno delle isole, il ché modificò la struttura urbanistica, creando così un percorso terrestre alternativo a quello acquatico che sarebbe rimasto ancora a lungo quello principale. Qui le case presentavano la facciata dove un atrio coperto ad arcate fungeva da approdo delle barche per lo scarico e il carico delle mercanzie. Distintivo che nell’XI secolo la grande proprietà privata cedette il posto alla proprietà pubblica ed ecclesiastica, mentre gli investimenti delle grandi famiglie si rivolsero sempre più ai terreni carpiti alle secche, agli acquitrini e alle successive bonifiche dell’area urbana dove alla metà del XII secolo i valori immobiliari erano saliti alle stelle.

 

Già dalla fine del IX secolo i cittadini più in vista non si addensavano in un particolare punto della città, piuttosto che un altro (riscontrato dalle liste dei contribuenti delle imposte patrimoniali) da cui si deduce che questi grandi contribuenti accentravano diverse attività economiche attorno a loro, rendendo la città priva di zone depresse. In pratica i nobili, i ricchi mercanti e il popolo abitavano porta a porta. Fra il popolo non c’erano solo marinai, pescatori e salinai (il monopolio del sale fu il primo impulso verso la ricchezza della Serenissima) ma anche diversi artigiani, che secondo lo spirito collegiale veneziano, fin dal X secolo si erano radunati in faglie e collegi: fabbri, macellai, scuoiatori, carrettieri, guardiani di greggi, sellai, fabbricanti di cestini di vimini, ortolani, allevatori di cani e di falconi… Un microcosmo suggestivo dove si negoziava, si firmavano contratti, si costruivano navi, fra le numerose case, le settanta chiese, vigne, orti in mezzo ad acquitrini e paludi.

 

Altrove la nobiltà era formata da conti, baroni e marchesi, a Venezia invece si costituì un’aristocrazia all’interno della quale non esistevano differenze di rango. L’aristocratico veneziano era N.H. Nobil Homo, “patrizio veneto” e basta. Inizialmente si era formata dai vecchi possidenti di majores terrae, famiglie nobili romane che fin dagli inizi aveva assunto i posti di comando e di potere della città e nel tempo si era allargata per via ereditaria. Ma proprio per il particolare sistema di governo a Venezia nobiltà non era sinonimo di ricchezza, un gran numero di essi erano poveri. In loro favore si era eretto qualche istituto, piccole pensioni, educazione gratuita per i figli mentre per le figlie il destino era il convento e doti così scarse, che non tanto attestavano la munificenza del governo, quanto la miseria dei genitori. Le donne andavano anche a mendicare nelle chiese, tanto era strano vedere queste persone dividersi fra la sovranità e le elemosine. Una piaga che nel Trecento si cercò di arginare realizzando misure che venissero in soccorso della nobiltà squattrinata, come la concessione della messetaria (tassa) del pepe a nobili dissestati che la voce pubblica chiamava per questo i poareti del pevere (i poveri del pepe). Questa moltitudine di nobili poveri diede origine a diversi nobili scrocconi. I mercanti e soprattutto gli ebrei erano le maggiori vittime delle loro azioni fraudolente, dei loro ricatti e spesso delle loro violenze. Ma nei casi più gravi ci fu anche chi tradì la Repubblica per denaro.

 

Due cose, dice Montesquieu, sono perniciose nell’aristocrazia, la povertà estrema dei nobili, e le esorbitanti loro ricchezze” e Venezia riuniva questi due estremi.

 

Chiesa di S. Zaccaria risalente al IX sec

Venezia, chiesa di S. Zaccaria risalente al IX sec

 

Per una visone più chiara della varietà del panorama economico, Venezia ha lasciato in eredità un estimo generale (il più antico del mondo) redatto fra il 1379 e il 1380 per la necessità di prestiti forzosi occorrenti a fronteggiare la guerra di Chioggia. Nei sei sestieri cittadini furono censite 2.128 persone in possesso di un patrimonio superiore al minimo imponibile, di queste 1.211 erano nobili e 917 popolari. Un nobile era il proprietario del patrimonio imponibile più elevato (60.000 lire di danari grossi). Nella fascia successiva (da 50.000 a 35.000 lire di patrimonio imponibile) si trovavano quattro nobili e un popolare; in tutto, le fasce che comprendevano i patrimoni più ragguardevoli, cioè superiori alle 10.000 lire, annoveravano 101 nobili e 26 popolari. Ma se si guarda nelle fasce inferiori, un grandissimo numero di nobili, 817 per l’esattezza, possedeva un patrimonio imponibile assai modesto, inferiore cioè alle 3.000 lire, e che ben 431 nobili si trovavano nella fascia minima, tra le 1.000 e le 300 lire di patrimonio imponibile, mentre per molti altri si andava addirittura al disotto, nella fascia dei nullatenenti, o quasi, esonerati dal contributo.

 

Dall’altra parte sin dal XII secolo erano numerosi anche coloro che con enormi fortune avrebbero contribuito alla grande ricchezza della Serenissima, fossero nobili o popolari, attraverso il commercio con diversi metodi di finanziamento. La rogadìa era la forma più vecchia, acquistare merce ed affidarla a mercanti per venderla in piazze lontane. C’erano i mutui con scadenze brevi a interessi elevati e il pagamento del doppio del capitale in caso di insolvenza. La colleganza, la forma più diffusa e tipicamente veneziana, nella forma unilaterale, la commenda, un finanziatore affidava il proprio capitale a un mercante e al ritorno riceveva di ritorno il capitale mentre l’utile veniva diviso per tre quarti al finanziatore e un quarto al mercante. Questo sistema permetteva al mercante di radunare otto o dieci commende dalle quali riceveva un quarto ciascuna trovandosi così nelle condizioni di poter partecipare come capitalista in una successiva spedizione, la bilaterale dove il finanziatore forniva tre quarti del capitale, il mercante un quarto più il proprio lavoro e gli utili venivano divisi a metà.

 

Naturalmente i capitalisti veneziani non investivano tutto in un solo affare, per ridurre i rischi distribuivano gli investimenti in varie colleganze, anche una decina. Per lo stesso motivo alla proprietà di una nave, preferivano la proprietà di uno o più ventiquattresimi di nave. In pratica le grandi ricchezze nacquero dall’accumulazione di piccole società e piccoli profitti. Dopo il XII secolo comparirono società durature, dove ognuno portava un pezzo di capitale e ne parteggiava in proporzione perdite e profitti. Oltre tutto questo, per chi non amava i rischi della navigazione un altro tipo di società consisteva nel semplice prestito ad negotiandum sulla piazza di Venezia con divisione degli utili alla pari.

 

Rialto era il centro delle attività finanziarie e commerciali. C’era installato l’ufficio dei Pesi e Misure, vi erano stanziati numerosi tedeschi, oltre che ad un gran numero di italiani. Le attività finanziarie si svolgevano con il sottofondo del chiasso dei mercati della frutta e verdura e della carne. Per facilitare l’accesso alla nuova area commerciale, nel 1172, secondo tradizione, fu costruito il primo ponte sul Canal Grande. Un ponte di barche apribile al centro per agevolare il passaggio delle navi cariche di merci dirette ai palazzi dei mercanti.

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