La guerra nei Balcani – Quinta Parte –

La III Guerra Mondiale

Quinta Parte

Introduzione

13) La guerra civile in Bosnia Erzegovina

 

 “E’ la storia di una società che precipita e che mentre sta precipitando si ripete per farsi coraggio: fino a qui tutto bene… fino a qui tutto bene… fino a qui tutto bene… il problema non è la caduta ma l’atterraggio.” L’odio, Mathieu Kassovitz, Francia, 1995.

In un clima di crescente odio etnico propagandato in tutto il territorio dei Balcani, la Bosnia Erzegovina si presenta così: Bosniaci Musulmani (bosgnacchi) 44%,  Serbi 31%, Croati 17% e il restante 8% altre etnie (tra cui chi affermava di essere “jugoslavo”). E’  subito chiaro che qui — vista la concentrazione in così poco spazio — la situazione sarebbe potuta diventare ancor più critica che altrove. E così fu. 

La situazione in Bosnia era — se possibile — ancora più complessa che nel resto dell’area balcanica. Oltre alla già citata mescolanza etnica, contribuiscono a complicare la questione la sua posizione strategica di zona centrale tra le due potenze croata e serba e la situazione politica del tutto instabile. In questa zona ci sono sia posti in cui predomina una etnia rispetto ad altre, sia zone in cui la convivenza ha fatto sì che le varie nazionalità si siano mescolate senza problemi con matrimoni misti e istituzioni politico amministrative solidali. Sul versante politico abbiamo una convergenza quasi irreale tra i tre diversi e antagonisti partiti usciti vincitori dalle recenti elezioni del 1990. Questi tre partiti sono: il Partito d’Azione Democratica, il Partito Democratico Serbo e l’Unione Democratica Croata di Bosnia ed Erzegovina. Divisi in tutto ma uniti dall’anti-comunismo (anche se sarebbe più corretto anti establishment titino, come nel caso dei serbi di Bosnia). Si trova un accordo per dividere i centri di potere statali nazionali in questo modo: la presidenza della repubblica va ad un musulmano, la presidenza del parlamento ad un serbo e la presidenza del governo ad un croato. La mescolanza di cui scrivo sopra rende irrealizzabile una federazione in cantoni, ognuno con la propria autonomia etnico-amministrativa.

Come assistendo ad un film già visto durante la crisi slovena e croata, la situazione peggiora prima con il conflitto politico e poi con la richiesta di indire un referendum per l’indipendenza della Bosnia. Lo scontro in parlamento è oltremodo violento. In un intervento Radovan Karadzic, leader dei serbi di Bosnia, afferma che i musulmani non sono preparati allo scontro e che rischiano l’estinzione“; il presidente, il musulmano Alija Izetbegovic risponde dicendo che la Bosnia non può più far parte della federazione jugoslava ormai quasi completamente in mano ai serbi.

14) Il referendum e l’inizio della catastrofe

 

Il 29 febbraio e il 1 marzo 1992 i cittadini sono chiamati a decidere sull’indipendenza dalla federazione jugoslava. Ovviamente i serbo-bosniaci sono fortemente contrari e invitano la cittadinanza serba a non recarsi alle urne. Boicottare il referendum al fine di non riconoscerlo.Che la situazione potesse inevitabilmente precipitare era facile previsione. La comunità europea continua a non avere una posizione univoca; gli USA di Bush, in scadenza di mandato, non si interessano e i politici in UK sono impegnati in campagna elettorale e non hanno nessun interesse a portare all’attenzione nazionale un difficilissimo problema di politica estera. 

Izetbegovic può contare sul controllo di molte città (tra cui Sarajevo) dovuto ad una maggioranza della popolazione musulmana che porta come ovvia conseguenza il controllo della polizia e buona parte dei militari statali. I serbi sono legati a Belgrado ed hanno un potenza militare maggiore degli altri due contendenti ma il leader serbo Milosevic non vuole utilizzare ufficialmente l’armata federale; quest’ultimo inoltre cerca una sponda politica nella Croazia di Tudjman. Le città cominciano ad essere piene di militari e paramilitari del partito del presidente. Nelle colline invece si preparano al conflitto le milizie paramilitari serbe con l’aiuto di forze e armamenti provenienti dalla Serbia. 

Come al solito, sia dall’interno che dall’esterno si fatica a comprendere la situazione. Se dal lato estero “l’ignoranza” di questo fenomeno — nuovo e vecchio allo stesso tempo — di etno-nazionalismo balcanico può essere spiegabile, desta stupore che anche i protagonisti interni mostrano di non voler capire che la strada del “nuovo nazionalismo” in posti relativamente ristretti, con una storia di odi e rancori alle spalle, e soprattutto con molti luoghi in cui le etnie sono mescolate a livello di spazio e di parentela, è destinato — appunto — a generare una catastrofe.

Questa è la soluzione che Tudjman consiglia a Milosevic.

Come sia possibile formare una confederazione “pacifica” delle tre etnie in conflitto tra loro in un territorio a nazionalità mista, il capo croato non lo spiega. Sembra quasi irreale poter pensare ad una soluzione del genere in un luogo come i Balcani; anche la soluzione della divisione netta che viene posta come condizione alternativa risulta ancora più irrealizzabile. Comunque sia, che la catastrofe sia dietro l’angolo è evidente a tutti, almeno nella zona interessata. Si cerca di mediare tra i serbo-bosniaci e i musulmani di Bosnia. Al momento i croati si defilano. 

Nella tv di stato si assistono ad appelli come questo.

Il referendum è stato fatto il 29 febbraio e 1 marzo 1992. L’appello è del 3 marzo dello stesso anno. Questo è il clima in cui si vota e si fa politica. In città e in periferia ci si arma, i capi politici sono “ethnic leaders“…

15) La manifestazione per la pace e i primi scontri armati

 

Le parti in causa si armano e avvengono i primi scontri armati. Non vengono risparmiati i civili. Il 3 marzo 1992 — come si è visto — c’è l’appello in tv, il 5 aprile viene indetta a Sarajevo una manifestazione per la pace durante la quale i manifestanti occupano il parlamento. C’è di tutto: dai bosniaci musulmani anti-nazionalisti, nostalgici titini, bandiere della ex Jugoslavia, pacifisti; tutti uniti contro la guerra.

I cecchini sparano sulla folla…

 

Siamo al punto di non ritorno. L’odio disumano sta vincendo sulla volontà di molti di mediare politicamente ed evitare la guerra civile. Nella città di Sarajevo la polizia bosniaca, in prevalenza musulmana e fedele al presidente, prende subito il controllo della situazione arrestando i cecchini nascosti nel tristemente famoso hotel Holiday Inn, dove risiedono di solito politici, giornalisti, ambasciatori di passaggio. 

E qui voglio mettere una mia considerazione personale sulla manifestazione. Forse perché abituato a vedere scontri e violenze durante manifestazioni nel nostro paese in cui regna la confusione, gli spari, il silenzio della piazza subito dopo, i manifestanti che si sdraiano a terra per evitare di essere colpiti, mi ha fatto conoscere un lato del terrore di piazza che non avevo mai visto prima. Sembra quasi che il silenzio dei manifestanti mi avesse fatto venire in mente quando ci assale la mancanza di parole di fronte all’assurdo. Spari sulla folla che manifesta pacificamente. Senza parole… appunto.

Si cominciano a formare i due fronti contrapposti: i serbo-bosniaci di Karadzic, le forze paramilitari serbe provenienti dalla Serbia, i berretti rossi della polizia dei servizi segreti da una parte e dall’altra i bosgnacchi di Izetbegovic, gli anti-nazionalisti di varie etnie come gli jugoslavi,i  croati, i serbi, la polizia locale e i berretti verdi musulmani. In questo periodo si formano anche milizie estere che convergono nella zona per aiutare la causa politico-religiosa-etnica a cui si ispirano. Arrivano i cristiani fondamentalisti dall’Austria, gli Hezbollah dalla Libia, nonché rifornimenti di armi sia dalla Serbia che da altri paesi. Insomma, una Guerra Mondiale in scala ridotta. Ridotta per il chilometraggio ma amplificata in odio.

Non solo ci sono conflitti etnici e religiosi ma — in misura maggiore nelle zone cittadine  — anche di parentela. Non si contano le famiglie che hanno parenti di due o più nazionalità. Ad esempio è facile che un serbo, con parenti bosniaci-musulmani, si veda arruolare nella Repubblica Serba della Bosnia, o al contrario un bosniaco musulmano, con parenti serbi o croati, prenda parte alla guerra dalla parte delle milizie musulmane. E tutto questo in una guerra civile, in una guerra in cui i civili sono considerati bersagli militari esattamente come i soldati, in una guerra in cui viene praticato quasi sistematicamente l’incendio di interi villaggi e lo stupro delle donne di etnia nemica.

Quello che accade a Zvornik dà l’esempio di come verrà combattuta questa battaglia da tutti i contendenti (in maniera più o meno grave, più o meno disumana). Zvornik è una piccola città a maggioranza musulmana, situata tra la Serbia e i territori bosniaci prevalentemente serbi. Strategicamente importante per Milosevic per l’unificazione e la creazione della grande Serbia. Ormai siamo in pieno conflitto. Le forze militari di Karadzic vogliono ottenere il controllo della città. Che Belgrado mandi aiuti con uomini e mezzi alle forze del leader serbo-bosniaco è pacifico, che le tattiche militari e strategiche siano prese dal centro — ossia da Milosevic — oppure autonomamente da Karadzic — invece — è meno chiaro. Questo rivestirà un’importanza cruciale nei processi contro crimini di guerra all’AJA. Il perché si può capire facilmente dalla tipologia di battaglia che si instaura in Bosnia. Da precisare che questo tipo di guerra sarà  combattuto da tutte le parti in causa. Il tribunale dell’AJA è stato creato apposta per definire grado ed intensità di tali crimini. Qui interessa la parte prettamente militare e sociologica; le questioni di diritto saranno trattate in articoli dedicati.

Ecco cosa è una guerra civile in cui l’odio etnico sia montato in maniera violenta.

Siamo a Zvornik. La città viene assediata dai Serbi. In questa zona le forze di Izetbegovic sono pressoché nulle e l’assedio si “risolve” subito ma non per questo in modo poco cruento. Tenendo conto che gli eserciti regolari — e quindi “controllabili” — sono solo una parte degli schieramenti, si arriva al paradosso che per contare meno morti una comunità deve combattere; a seconda di quale milizia della parte avversa si incontra (paramilitari senza controllo, fanatici ideologizzati) arrendersi diventa ben più pericoloso.

[ATTENZIONE: immagini forti]

 

16) Il rapimento di Izetbegovic

 

Nei territori della Bosnia orientale la tensione etnica è assoluta. Nelle zone di confine e periferiche i serbo-bosniaci conquistano facilmente le città e i paesi. Non c’è praticamente scontro; queste zone diventano piene di militari e i civili (in maggioranza se non quasi tutti musulmani) scappano o vengono scacciati. Si chiama pulizia etnica.

Nelle zone centrali della Bosnia e a Sarajevo le forze fedeli al presidente Izetbegovic sono la maggioranza e hanno l’appoggio strategico della popolazione. Non solo i musulmani ma anche gli abitanti croati o serbi contrari alla politica nazionalistica di  Karadzic appoggiano le milizie regolari della Bosnia (ormai quasi del tutto a maggioranza musulmana).

La comunità europea non può più far finta di niente. Viene convocato dalla comunità europea il presidente a Lisbona per sentire le sue ragioni. Al ritorno la situazione — già instabile — peggiora. Gli scontri a Sarajevo continuano ma i militari serbo-bosniaci sono in difficoltà; vengono  fermati prima di arrivare al palazzo presidenziale. Le linee telefoniche si guastano o vengono interrotte. Gli aeroporti e le strade più importanti di raccordo tra le varie città vengono presidiate dall’armata federale jugoslava. Ormai l’armata federale risponde solo ai voleri di Belgrado e viene considerata ostile dal movimento anti-serbo di Bosnia. E infatti il quartier generale dei militari federali jugoslavi viene assaltato da combattenti più o meno regolari bosgnacchi. In questa situazione di estremo pericolo istituzionale, il 2 Maggio 1992, Izetbegovic torna da Lisbona ed atterra in un aeroporto presidiato dalle forze federali che lo trattengono. Viene usata la linea della stazione televisiva nazionale per far comunicare il presidente con il suo rappresentante di governo, Ejup Ganic. Il comandante delle forze armate dichiara che lascerà andare il presidente solo quando sarà dato il comando di lasciar uscire pacificamente le truppe serbe da Sarajevo.

 

In Italia si sente spesso parlare in maniera del tutto sbagliata di “golpe” o “colpo di stato“. Per essere precisi, ecco cosa è realmente un colpo di stato: un presidente eletto democraticamente di uno stato sovrano preso in ostaggio dai militari della federazione jugoslava (e quindi che dovrebbero difendere anche i cittadini e rappresentanti della Bosnia). Linee telefoniche interrotte. Assedio di forze militari regolari e irregolari al palazzo della presidenza della repubblica.

Uno — tra i tanti problemi — che le milizie paramilitari hanno è, come scrivo sopra, il fatto che siano poco o per nulla controllabili; non hanno una catena di comando ben precisa, non si sa chi dà ordini e chi comanda veramente. Questa problematica risulta evidente nel sequestro di Izetbegovic. I militari, non fidandosi della sua sola “parola”, attuano il rapimento per assicurarsi che le truppe federali escano illese dalla città di Sarajevo. Comunque la situazione è del tutto fuori controllo.

17) Il rilascio di Izetbegovic

 

Entrano in scena i generali. Adesso le decisioni vengono prese da loro. Per il rilascio di Izetbegovic viene accordata la richiesta di creare un convoglio militare in cui siano presenti sia il presidente che i militari jugoslavi capeggiati dal Generale Milutin Kukanjac, sotto  la supervisione del Generale Lewis Wharton MacKenzie delle nazioni unite. Il piano prevede che il presidente venga trasportato nel quartier generale federale di Sarajevo e che lì si unisca allo staff federale per uscire dalla città. Una volta portate in salvo le truppe federali (fedeli a Belgrado), il capo di stato potrà fare ritorno nel suo ufficio presidenziale. Viene contattato anche il Generale Jovan Divjakcapo della Armata Bosniaca, per seguire le operazioni e verificare che nessun attacco venga portato al convoglio esclusivamente  composto da serbo-bosniaci, eccezion fatta per il blindato UN dei caschi blu con all’interno Izetbegovic e Kukanjac.

In una situazione di “normale” guerra con codici militari accettati questo piano sarebbe potuto filare liscio. Ma qui di codici non ne esistono e infatti la rabbia delle forze paramilitari bosniache per l’affronto del rapimento esplode incontrollato al passaggio dei  veicoli. Il convoglio viene spezzato a metà; gli assalitori aprono il fuoco. Il generale bosniaco cerca di far rispettare i patti ma — via radio — si imbatte in personale che non ha ricevuto gli ordini in merito al piano concordato.

I caschi blu sono pochi rispetto ai contendenti. In più non hanno regole d’ingaggio precise e comunque non hanno la possibilità di contendere le strade con la forza. E’ stato detto e ridetto svariate volte. La titubanza europea nel trattare la questione dei Balcani come era necessario fosse trattata non ha portato beneficio alcuno. Equilibrismi politici tra le potenze europee e la Russia hanno fatto in modo di decidere di non decidere. Per combattere una simile guerra non bastano appelli o risoluzioni; se si decide di intervenire lo si deve fare in modo proporzionale alla situazione.

E come è la situazione — ad esempio — all’interno del blindato della nazioni unite dove ci sono i due capi nemici contrapposti Izetbegovic e Kukanjac?

Questa…

 

Per le strade regna l’anarchia violenta più totale. Il generale dell’Armata Bosniaca non riesce a far rispettare i patti. I combattenti prendono ordini dal quartier generale (lontano dalla zona dei combattimenti). Divjac, al contrario, è a conoscenza diretta dell’accordo fatto — probabilmente a tre con le nazioni unite — e che prevede che tutto il convoglio sia fatto passare, non solo il mezzo con il capo di stato e il generale dell’armata federale. Divjac fatica non solo a farsi riconoscere per radio ma anche a dare ordini perentori. “Nessuno lascerà la città” ad un certo punto sbotta l’interlocutore del generale. La cosa che lascia stupefatti è la confusione anche nel campo militare; campo di solito in cui la gerarchia e l’ordine sono vitali.

Il comando centrale delle forze armate della Bosnia che non riconosce gli accordi presi, l’autorità del generale non viene riconosciuta completamente; ci si potrebbe chiedere… che tipo di strategie militari e accordi di pace si possono fare con situazioni del genere?

 

Nella Bosnia orientale si combatte in maniera violentissima. La forza di protezione delle Nazioni Unite UNPROFOR estende ufficialmente il suo mandato oltre che per la Croazia anche per la Bosnia.

I video fanno parte del documentario della BBC The Death of Yugoslavia

I commenti sono chiusi.