Un popolo di raziocinanti

“Vi assumereste, voi, il compito di governare un 

popolo di raziocinanti? Napoleone non osava 

farlo, perseguitava gli ideologi. Per impedire ai 

popoli di ragionare, bisogna imporre loro dei sentimenti”

“Storia dei tredici”, Honoré de Balzac




Nei momenti di crisi la gente si chiude, serra i confini e cerca “alleati” fidati. Non so se si possa definire una teoria delle scienze sociali ma penso che — a partire dalle due crisi economiche  mondiali ( 1929 e 2007 ) — si possa dire che la povertà agisce come un “cursore” che sposta i valori in direzione della reazione a destra. Bisognerebbe avere altri dati per avvalorare questa tesi ma sinceramente non ho voglia di andarmi a pescare i dati economici e politici di un centinaio di anni. Prendo i casi limite e penso che anche la psicologia sia in accordo con questa tesi, e cioè che la paura mediamente paralizza.

Ciò è curioso visto che la sinistra — storicamente — è sempre stata — nei fatti e a parole — a favore dell’uguaglianza sostanziale e quindi di un effettivo aiuto ai più deboli economicamente.

Non sono molto esperto di storie ungheresi ma la costituzione emendata da Viktor Orban nel 2012 è proprio la summa delle teorie reazionarie in tempi di crisi: retorica etnica, estetica e nazionalismo. Non sono cose nuove; appunto la “guerra tra poveri” è un arma difficilmente contrastabile. In più questa retorica presto o tardi si scontra con la realtà ed è costretta a correre ai “ripari” con soluzioni “non-soluzioni”. Come, ad esempio, la risibile costruzione del muro di filo spinato ai confini con la Serbia.

E qui si torna al punto: se i più deboli si armano l’uno contro l’altro, hanno solo possibilità di sopravvivenza, non certo di un progressivo miglioramento delle loro condizioni. E’ ovvio: se c’è poco e non si cambia niente si avrà o poco o niente.

Avrebbe senso un ampio ragionamento che dimostrasse che con la solidarietà si starebbe comunque meglio? Anche ammesso che una costruzione politica teorica ed esplicativa dimostrasse la logica dello sforzo comune, la gente la seguirebbe?

Forse sarebbe inutile e la gente, come pensava Dostoevskij, “sovraordina il pane alla libertà”. Basta la sicurezza mediocre del giorno per giorno per abbandonare ogni rischio di cambiamento.

Comunque la sinistra non ha ancora trovato la chiave del consenso proprio nel momento in cui ci sarebbe bisogno di politiche di sinistra; sembra un controsenso ma è così. Siamo rimasti ancora al proletari di tutto il mondo unitevi” che continua a far affidamento non alla ragione ma ai sentimenti. Il che sarebbe il meno; il fatto è che non funziona più.

Forse è proprio questo il punto: la ragione con la politica non c’entra nulla. Almeno la ricerca del consenso non avviene tramite ragione ma tramite passione. Quindi: è completamente inutile cercare di ragionare con un avversario politico? Se vi dimostrassero con passi logici la validità del ragionamento opposto al vostro rinuncereste alle vostre convinzioni più profonde?

Che la gente più debole debba essere aiutata anche se questo mi porta a non fare più l’abbonamento a sky rimane “giusto” per me. Quindi non mi addentro neanche in discussioni di maggior o minor efficienza sociale.

Ma io vado più in là.

Mettiamo che venga convinto a cambiare i miei presupposti. Vengo in seguito convinto anche della correttezza logica del ragionamento opposto e che i dati utilizzati convalidino tutto il ragionamento. Sono sicuro che se il risultato venisse a contrasto con i miei più profondi ideali questi non verrebbero intaccati.

Questo lo noto (perché è più facile vedere le incongruenze negli altri che in se stessi) quando discuto su argomenti di “impatto” emotivo.

Quante volte ho postato questo link?

“La figura qui sotto mostra il numero di crimini denunciati all’autorità giudiziaria in rapporto alla popolazione e la dinamica della popolazione immigrata. Come si vede, a fronte di un incremento del 500 per cento del numero di permessi di soggiorno (passati da 436mila a 2.286mila) dal 1990 a oggi, i tassi di criminalità (numero di crimini per 100mila abitanti) sono rimasti pressoché invariati.”

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Se avete notato l’aumento sostanziale nel 2004 ecco la nota metodologica che spiega la discrepanza rispetto agli altri anni

“I dati relativi ai delitti denunciati nell’anno 2004 non sono omogenei rispetto a quelli degli anni precedenti, per notevoli modifiche nel sistema di rilevazione e nell’universo di rilevazione: dal 2004 vengono infatti considerati, oltre ai delitti denunciati all’Autorità giudiziaria da Polizia di Stato, Arma dei carabinieri e Guardia di finanza (che alimentavano il modello cartaceo 165 in uso fino all’anno 2003), anche quelli denunciati dal Corpo forestale dello Stato, dalla Polizia penitenziaria, dalla Direzione investigativa antimafia e da altri uffici (Servizio interpol, Guardia costiera, Polizia venatoria ed altre Polizie locali). Ulteriori differenze derivano da una diversa definizione di alcune tipologie di delitto e da una più esatta determinazione del periodo e del luogo del commesso delitto. Per tali ragioni i confronti devono essere fatti con estrema prudenza.” 

Questa nota metodologica dimostra, tra le altre cose, anche la pericolosità nell’utilizzo della statistica su temi di forte impatto ideologico.

In merito alla differenza tra “clandestini” e “immigrati” dico solo che l’essere clandestini non è — di solito — una scelta ma una condizione passeggera, se non subita.
Un clandestino o è di passaggio (e quindi non vuole legalizzare il suo status e non rientra nel discorso in esame) o ben cerca di regolarizzare la sua posizione.

Hanno calcolato i tempi medi su un campione di questure. E i tempi sono di 291 giorni di attesa. Quindi è plausibile che il tempo medio di rilascio di tutta Italia passi da un mese ad un anno circa. In un anno la stessa persona passa di status giuridico e rimane (se la logica ha un senso) uguale, con la stessa “propensione a delinquere”. I regolari di oggi sono i clandestini di ieri. La differenza — secondo il mio parere — non ha nessuna validità sul discorso generale.

Ma non serviva a niente. Non c’era nessun tipo di progressione nel dibattito. Forse avrei dovuto “imporre un sentimento“? Ovviamente il discorso vale “nell’altro verso”: se ci fossero dati a sostegno della testi “contro l’immigrazione”, io vorrei comunque uno società più aperta possibile e cercherei — al limite — delle soluzioni per migliorare la condizione generale della società. Ad esempio, migliore integrazione, urbanistica ecc ecc…

Quindi il risultato è che le discussioni servono ad autoconvircerci? A cosa serve agitarsi tanto se sappiamo che le discussioni di politica ideologica non portano a modificare la convinzione dell’altro?

 

 




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