Serenissima – Lepanto

Solimano II il Magnifico si era sempre fatto scrupolo di violare la pace stipulata con la Repubblica nel 1540. Ma quando nel 1566 morì e fu succeduto al trono dal figlio Selim II le cose stavano per cambiare. Selim II era un ubriacone con la faccia rovinata sia dal vino che dalla grande quantità di acquavite, e si faceva facilmente influenzare. Soprattutto da un personaggio singolare e potente, tal Josef Nassì, un ebreo portoghese che l’aveva aiutato a raggiungere il trono, dalla storia altrettanto singolare (per la quale non c’è spazio) ma che coltivava un sogno audace quanto anacronistico, quello di dare una patria agli ebrei. Un precursore del sionismo. E Venezia era il suo primo bersaglio perché si era rifiutata di mettere un’isola a sua disposizione per creare un centro per gli ebrei portoghesi perseguitati, quindi incitò Selim a prendersi Cipro, della quale voleva fare la patria degli ebrei, aspirando a diventarne il re, anche se Selim la voleva per appropriarsi delle famose vigne cipriote ed inebriarsi nella penombra del Serraglio.

 

Solimano II il Magnifico

Solimano II il Magnifico

 

Naturalmente il Senato veneziano era informato di tutto ciò, ma non ne diede importanza. Neppure quando ci fu un attentato all’Arsenale e le tracce portarono a Nassì, si pensò di rinforzare le difese di Cipro e di rimettere in sesto l’armata navale, che dopo anni di pace fu trascurata e disordinata per la costante guerriglia di corsa. Fu così che quando un inviato del sultano si presentò con un ultimatum per la cessione di Cipro, tutti cascarono dalle nuvole, nonostante i dettagliati e periodici rapporti del bailo Marcantonio Barbaro, uno dei più scaltri e coraggiosi diplomatici che la Repubblica abbia avuto.

 

Così Venezia si trovò in guerra per quell’isola lontana che la regina Caterina Corner le aveva donato novant’anni prima. Dopo la grande spremitura che ci avevano fatto i genovesi ci vollero tanti soldi e fatiche per amministrare i suoi centosettantamila abitanti e cadde l’illusione di poter accettare qualunque cosa pur di continuare la pace. Contemporaneamente Filippo II, figlio di Carlo V, a lui succeduto, era alle prese con una sanguinosa guerra intestina contro i Mori. Ancora una volta il Mediterraneo era in subbuglio.

 

La diplomazia veneziana chiese aiuto dappertutto in cerca di alleati, dallo zar di Russia, il re di Polonia, il sofì di Persia, ma soprattutto fece pressione sul papa e Filippo II di Spagna. Il 1° luglio 1570 il turco iniziò lo sbarco delle sue truppe sull’isola e contemporaneamente papa Pio V cominciò a preparare una nuova Crociata. In quell’anno si svilupparono due vicende parallele, da un lato la guerra di Cipro dove guarnigioni scarse, nonostante i rinforzi e i volontari, si prepararono a fronteggiare le forze quasi inesauribili del turco senza reali speranze. Dall’altro la campagna navale, affidata a un capitano incapace che si scontrò con la tenacia del re di Spagna che non voleva assolutamente impegnarsi, tanto peggio se i veneziani avessero perso Cipro, l’importante era salvaguardare la flotta spagnola.

 

Sebastiano Venier

Sebastiano Venier

 

Il bilancio fu negativo da ambo le parti, Nicosia fu conquistata, al prezzo di ventimila persone massacrate, mentre nel frattempo la flotta alleata, fra i cavilli di Gian Andrea Doria e le incertezze del capitano veneziano, avanzava lentamente. Fu rimosso il capitano generale e sostituito con Sebastiano Venier, uomo di altro genere, coraggioso, fiero, energico ed ottimo organizzatore, accostandogli Agostino Barbarigo, ammiraglio con buona esperienza diplomatica, utile per i rapporti con gli ammiragli del papa e di Spagna. Nel comandante spagnolo,  Gian Andrea Doria, nessuno aveva più fiducia, troppi tradimenti e troppi fallimenti premeditati per interesse del re di Spagna o personali. Ma gli sforzi di Pio V, ebbero successo e il 20 maggio 1571 la lega santa contro gli infedeli fu ufficialmente varata. Nacque fra diffidenze e gelosie, il pessimismo di Venezia che vedeva ormai l’isola perduta e le affermazioni di Sebastiano Venier che la flotta era in pessimo stato e per riordinarla, reintegrarla e completarla sarebbe servito un grosso sforzo economico.

 

La lega era comunque una realtà e si basava su alcuni punti fermi: il comando supremo fu affidato a Giovanni d’Austria, figlio naturale di Carlo V, 22 anni, intelligente, coraggioso che si era distinto nella battaglia di Granada. Gli obiettivi dovevano comprendere anche gli Stati barbareschi del nord Africa a tutela della Spagna e la Spagna avrebbe aperto a Venezia il mercato dei cereali, liberandola dalla Turchia. Il trattato sarebbe durato 12 anni e fu esplicitamente vietato a ciascun alleato di trattare separatamente con il nemico senza informare gli altri. Fu stabilita l’entità dei contingenti navali e le spese, non senza polemiche.

 

Gian Andrea Doria

Gian Andrea Doria

 

Il 24 agosto arrivarono a Messina le ventisette galee spagnole di Gian Andrea Doria, dove aspettavano le dodici galee papali comandate da Marcantonio Colonna, le tre dell’Ordine di Malta e le cinquantasei veneziane di Sebastiano Venier. Seguirono le trenta galee napoletane del marchese di Santa Cruz seguite da un ulteriore contingente veneziano agli ordini di Marco Querini.

 

Nel frattempo a Cipro si moriva. La guerra di Cipro fu cruenta, sanguinaria, non priva dei tradimenti del turco, ma anche qui non c’è lo spazio per un resoconto dettagliato. Le forze erano impari eppure Andrea Bragadin, il comandante veneziano resistette, grazie alle fortificazioni di Famagosta. Con 500 uomini tenne a bada i 25.000 turchi fino alla resa sotto false promesse. Quando si consegnarono, gli italiani furono massacrati e ai comandanti furono riservate atrocità terribili, scorticati vivi, mozzati delle orecchie e trascinati attraverso le truppe turche prima che gli fossero mozzate le teste e portati a Costantinopoli da dove il corpo del Bragadin venne successivamente trafugato e trovò sepoltura nella chiesa di san Giovanni e Paolo, dove tutt’ora riposa.

 

Formazione prima della battaglia.

Formazione prima della battaglia.

 

Gli orrori di Famagosta divennero materiale di propaganda per la Lega. Così l’ordine di battaglia della flotta venne definito. L’armata sarebbe stata suddivisa in tre squadre, ognuna con una bandiera di colore diverso. A sinistra (bandiera gialla) a capo di Agostino Barbarigo, provveditore veneziano. A destra (bandiera verde) Gian Andrea Doria. Le galee centrali (bandiera blu) don Giovanni d’Austria, e i due comandanti pontificio e veneziano, Marcantonio Colonna e Sebastiano Venier. In retroguardia (bandiera bianca) il marchese di Santa Cruz. Un miglio davanti la flotta le sei galeazze veneziane, armate ciascuna di ventidue cannoni e trecento archibugi, disposte due a due. Venne deciso intelligibilmente e fu determinante, che le galee delle varie nazionalità fossero mescolate assieme, così da comporre un’unica armata cristiana. Le tre galere di Malta ottennero l’onore di mettersi davanti a tutte, un antichissimo privilegio dei Cavalieri di san Giovanni.

 

Sulla strategia ci furono subito disaccordi. Gian Andrea Doria e il luogotenente di don Giovanni d’Austria erano per la difensiva, in linea con la politica spagnola nell’evitare lo scontro frontale. Venezia, al contrario, con il pensiero fisso a Cipro, voleva l’offensiva. Ci furono altre diverse discordie fra i veneziani e gli spagnoli, soprattutto quando don Giovanni mandò il Doria ad ispezionare le galee veneziane.

 

A bordo della flotta c’era il fior fiore della nobiltà italiana e spagnola. I piemontesi con don Francesco di Savoia, il duca di Urbino, il principe di Parma, i Doria e gli Spinola, i Grimaldi. I Lomellini, Alderano Cybo Malaspina, marchese di Carrara, Paolo Giordano Orsini. Gli Sforza e i Carafa, i Caracciolo e i Lodrone, i d’Avalos, i Serbelloni, i Gonzaga, i Cardona, i Padilla, i Figueroa, i Manrique e a bordo di una galea spagnola un uomo il cui nome sarebbe destinato a durare più a lungo di tutta la sfilza di nobiltà sopra descritte, un povero gentiluomo di spada con una vena letteraria che lo avrebbe portato a scrivere uno dei più grandi capolavori dell’umanità, il cui nome era Miguel de Cervantes Saavedra, l’autore del Don Chisciotte.

 

Ma dov’era la flotta turca? Tempo prima, alcuni schiavi fuggiti avevano parlato di 200 galere dirette a Corfù, in giugno erano 300 che si dirigevano verso Candia. Nella rada di Lepanto (l’attuale Nafpaktos) si trovavano 230 galere più settanta navi minori con 90.000 uomini e 750 pezzi d’artiglieria sotto il comando supremo di Alì Pascià, affiancato dal sirdar Pertev Pascià, da Euldj Ali, beylerbey di Algeri e da un gruppo di ammiragli corsari. La consistenza della Lega era invece di 208 galee (106 veneziane) più le 6 galeazze, anch’esse veneziane e 20 o 30 navi a vela. I pezzi d’artiglieria totali erano 1815 con 80.000 uomini, la metà dei quali (come per i turchi) erano galeotti. Mentre i cristiani gli promisero la libertà in caso di vittoria, Alì Pascià ordinò che non alzassero gli occhi dai banchi e di ucciderli in caso di insubordinazione.

 

Don Giovanni d'Austria

Don Giovanni d’Austria

 

La sera del 7 ottobre le navi della Lega giunsero alle isole Curzolari, sull’imbocco del golfo di Lepanto e il mattino seguente avvistarono in distanza le navi ottomane. Gli spagnoli erano ancora titubanti, ma il giovane don Giovanni dalla sua galea (la Reale di Spagna) alzò il segnale che ordinava all’armata di schierarsi. La flotta ottomana era a 10miglia e anche fra i turchi c’era molto entusiasmo, soprattutto perché le informazioni che erano state riferite erano inesatte, valutando la flotta nemica inferiore a quello che era.

 

Le galee della lega erano affiancate a contatto di remi formando una linea invalicabile, precedute dalle sei galeazze. All’ultimo momento il giovanissimo comandante si fece portare a bordo della capitana di Venezia chiedendo a Sebastano Venier “Che si combatta?” “E’ necessità e non si può far di manco” gli rispose il vecchio capitano generale da mar.

 

Galleria delle carte geografiche, Musei Vaticani.

Galleria delle carte geografiche, Musei Vaticani.

 

La battaglia di Lepanto fu la più grande e la più sanguinosa che sia stata combattuta nel Mediterraneo, un mare avvezzo ad una serie ininterrotta di guerre nei secoli e su di essa è stato scritto talmente tanto sia in prosa che in versi che descriverla qui sarebbe irriverente. E’ stata raccontata la sorpresa di Alì Pascià alla vista di quell’immenso schieramento pieno di cannoni. Lo scompiglio provocato dal fuoco delle galeazze, l’affrontamento delle galee capitane, la mischia, la carneficina con la morte di Alì e la sua testa mozza mostrata al nemico in cima a una picca. E lo spettacolo orribile del mare coperto di sangue, di cadaveri, di remi spezzati, di alberature. E il gran bottino fatto dai vincitori, gli schiavi cristiani che spezzarono le catene assalendo i Turchi alle spalle con ciò che trovavano.

 

Fu una vittoria netta e schiacciante anche se il bilancio fu pesantissimo per tutti. Furono catturate 117 galere, 13 galeotte, 117 pezzi d’artiglieria pesante, 256 leggere e 17 petriere.62 galere furono affondate e presi prigionieri 3486 turchi. I turchi persero dai 20.000 ai 30.000 uomini, compresi i fuggiaschi massacrati dai greci dei villaggi circostanti. Furono liberati 15.000 schiavi cristiani. Ma per la Lega i feriti furono 20.000, i morti 7.500 (2.000 spagnoli, 800 pontifici, il resto veneziani, per questo, avendo pagato il tributo più alto, al momento della spartizione del bottino non si sentirono adeguatamente ricompensati.

 

Ci furono poi le critiche e i sospetti attorno al solito Gian Andrea Doria che si era staccato dalla formazione e fu accusato apertamente di tradimento da Marcantonio Colonna. La ragione fu cercata nel fatto che le galee erano sue, appaltate al re di Spagna e voleva sparagnarle, qualcuno alluse anche ad un calcolo politico, nel “recupero” di Euldj Alì da parte della Spagna. Solo il povero Miguel de Cervantes fu l’unico a non gioire, portato via schiavo dalla galera di Euldj Ali, sulla quale si era lanciato combattendo.

 

Ma la portata morale della vittoria fu enorme. La vittoria cristiana sbarrò la strada ad un avvenire che si presentava molto oscuro, per il sud Italia, per l’Adriatico e per l’espansione ottomana in Europa.

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