Racconti su un tracollo

Vorrei finire con alcune considerazioni personali a completamento dei precedenti articoli, frutto del mio vissuto. L’ultimo articolo era un tratto di storia (russocentrica, come qualcuno mi ha fatto notare) ma da Mosca dipendeva tutta l’Unione Sovietica e come avevo già scritto la Russia e L’URSS erano sovrapponibili quindi indivisibili. Un’analisi dal punto di vista delle repubbliche satelliti sarebbe un lavoro quasi impossibile per scarsità di letteratura. Qui invece vorrei solo raccontare qualche tratto della mia esperienza che si basa su San Pietroburgo, Mosca e Ashgabat la quale nonostante disti quattro ore d’aereo, con una differenza climatica, geografica ma anche etnica completamente diversa, da molti punti di vista tecnici e costruttivi aveva comunanze con le altre, come lo squallido stile architettonico, la serramentistica delle case, il modello costruttivo, il prefabbricato standard, uguale in tutto l’impero sovietico e di bassa qualità e soprattutto il modello di vita.

Materiale e attrezzatura sovietica si rompeva regolarmente, dalla serratura di casa all’autobetoniera, dall’automobile alla frequente interruzione della corrente elettrica e gli scaldabagno, privi di valvola di sicurezza e termostato, esplodevano sistematicamente se non si conoscevano gli accorgimenti, tanto che le quattro ore di volo Mosca-Ashgabat su un vecchio e arrugginito Tupolev 154 della Turkmenistan Airlines erano sempre angoscianti, soprattutto quando arrivavano (spesso) notizie di aerei sfracellati.

 

 

Nell’URSS prevaleva il gigantismo, gru edili mostruosamente grandi, tozze, pesanti, completamente sproporzionate e tecnicamente sballate nelle prestazioni, riuscivano a sollevare non più di 50 kg di carico in punta. Anche i camion che a prima vista sembravano enormi avevano capacità di carico inferiormente sproporzionate alla loro mole. Le Volga erano automobili di livello superiore eppure se nevicava bastava soffiarci sopra per farle sbandare. Nei trasporti erano stati aiutati dalla tecnologia italiana, la Lada aveva origine dalla catena della vecchia Fiat 124 e anche la piccola Niva ne montava il motore, non era male come automobile, ma rappresentava un’altra epoca di tecnologie, consumi e confort. L’impressione era quella di un mondo che si fosse fermato agli anni ’60 e non fosse andato oltre. Un russo una volta mi confermò questa teoria dicendomi che l’ultimo che li aveva fatti lavorare seriamente era stato Krusciov, dopo di lui il nulla, fu la sua tesi.

Il modello costruttivo era completamente privo delle minime norme del buon senso, lo standard in tutto il territorio era la prefabbricazione con moduli di calcestruzzo armato la cui qualità lasciava notevolmente a desiderare ed era spaventosamente malfatta (e inquietante) nel montaggio, soprattutto al sud. C’era però un abisso fra pubblico e privato, se l’edilizia civile era pietosa, la metropolitana, sia a Mosca, sia a San Pietroburgo contava anche qualche concezione tecnica e organizzativa (oltre che estetica) avveniristica. Una stazione di San Pietroburgo, dato il terreno cedevole, posava su un enorme cuscino riempito di azoto e sulle banchine di arrivo delle linee più affollate di Mosca sovrastava un grande contasecondi che si azzerava alla partenza di ogni treno in modo che il successivo sapesse da quanto era partito così da calcolarne la distanza, perché la frequenza dei treni nelle ore di punta era di 57 secondi, tanto per citare un paio di esempi.

 

 

Allo sfascio dell’impero è coinciso il fallimento economico di tutte le repubbliche, Russia compresa dove la svalutazione del rublo portò la popolazione nella disperazione perché il potere d’acquisto crollò, quindi pane e generi di prima necessità aumentarono automaticamente di prezzo. Nessuno accettava assegni, carte di credito o qualunque altro mezzo di pagamento, le transazioni bancarie con l’estero erano sospese quindi anche i bonifici. Tutti i pagamenti venivano eseguiti solo tramite contanti e l’unica banconota estera accettata era il taglio da 100 dollari a patto fosse nuova. Ogni banconota vecchia o spiegazzata veniva rifiutata, così che a San Pietroburgo si vedevano girare ovunque mazzette da cento dollari nuove di zecca rilegate in base al valore e penso che una quantità impressionante di dollari in contanti entrò in quel periodo in Russia.

Da nazione organizzata finirono in un clima da Far West, nacquero guardie del corpo e chi poteva si armò (ho visto sparare a un pedone la cui unica colpa era essersi incazzato perché non riusciva ad attraversare, sulle strisce) tanto che in tutti i luoghi pubblici c’era l’obbligo di entrare attraverso i metal detector e un gigante muscoloso stava attento a verificare che tutti lo facessero.

L’alcolismo, maschile ma anche femminile, decisamente maggiore a San Pietroburgo e Mosca che nel sud, ha contribuito non poco a mettere in ginocchio il paese. Capii come funzionava la prima volta in un ristorante di Mosca quando mi chiesero se volevo bere birra o vodka, non c’erano altre alternative. Mandavano giù quantità industriali di vodka, tanto che in quegli anni di crisi furono costretti ad importarla (anche dagli USA, made in Michigan lessi). I rivenditori erano aperti tutta la notte e oltre alla vodka che veniva venduta in lattine (come la Coca Cola) ai russi piaceva una falsa imitazione dell’amaretto di Saronno e quello che loro chiamano champanska, una schifezza dolciastra che l’uva l’aveva vista (forse) in televisione.

 

 

La razione normale di vodka corrisponde a quella di un bicchiere di vino italiano e la bottiglia sta generalmente sulle tavole imbandite dei russi. Acqua in russo si dice voda e sembra che l’etimologia della parola vodka derivi da lì, forse per questo non fanno differenza. I weekend invernali facevano stragi perché la vodka non dà avvertimenti, un attimo prima sei sobrio o allegro, un secondo dopo disteso a terra incosciente e nei rigidi inverni pietroburghesi c’erano addetti paramedici e non, che battevano la città per soccorrere e più spesso raccogliere i numerosi cadaveri morti congelati dalle strade.

 

Il Turkmenistan era governato da Nyýazow un dittatore “eccentrico” (le sue eccentricità si trovano ben elencate su wikipedia) che dopo l’indipendenza aveva promesso una Mercedes nel garage di ogni turkmeno. L’economia del paese si basa sull’estrazione del gas naturale (il cui sottosuolo è estremamente ricco) e sulla coltivazione del cotone che il presidente aveva ipotecato per diversi raccolti futuri al fine di costruire il palazzo del governo, i palazzi ministeriali e naturalmente le proprietà personali. Interessati agli idrocarburi inizialmente arrivarono le grandi compagnie occidentali, ma in breve tempo quel gas tornò sotto l’egemonia russa e temo che i turkmeni aspetteranno ancora un bel po’ di tempo prima di avere quella Mercedes nel garage.

Ad Ashgabat c’era il nulla, salvo prodotti ortofrutticoli di produzione locale che fornivano cibo nei mercatini cittadini, in cui imparai subito che il pomodoro in russo si chiama pomodoro, intuendo chi lo aveva importato e che verza e melograno avrebbero fatto parte della mia dieta futura per molto tempo.

La rete di distribuzione dell’URSS saltò dappertutto al punto da creare situazioni grottesche, dato che le merci uscivano dalla fabbrica con forniture di convogli ferroviari completi, in un paese dove c’era il nulla, dal sapone alla carta igienica al dentifricio, è arrivato un treno pieno di fisarmoniche che successivamente si trovarono in vendita in tutti i negozi della città. Effettivamente se prima ogni repubblica produceva in funzione dell’URSS, dopo la divisione i singoli paesi si trovarono esageratamente in eccesso per alcune merci, anche inutili, ma contemporaneamente mancanti di beni prodotti nelle altre repubbliche e purtroppo il Turkmenistan se produceva fisarmoniche, non ha mai avuto una fabbrica di carta igienica.

 

 

Nelle repubbliche satelliti all’URSS i Russi occupavano quasi tutti i posti di comando, ma dopo le indipendenze vennero cacciati e sostituiti con i loro sottoposti locali, così da un giorno all’altro quei paesi vennero governati da una nomenklatura di impiegati, segretarie e uscieri. Ci fu contemporaneamente un’intolleranza al contrario e una buona parte dei russi fu costretta a tornare in Russia, in Ucraina, in Bielorussia, almeno chi aveva parenti o appoggi, mentre gli altri si dovettero arrangiare. In quegli anni ci fu anche un grande esodo verso Israele, dove confluirono i cittadini ex sovietici di fede ebraica.

In Turkmenistan ho assistito alle celebrazioni del primo anniversario dell’indipendenza e alla nascita del “manat” la moneta che avrebbe sostituito il rublo, fornito indipendenza valutaria dalla Russia e secondo Nyýazow ricchezza al paese. Fu emesso con l’ambizione del cambio ufficiale alla pari con il dollaro, dopo una settimana nelle strade si cambiava 1:10, dopo due mesi veniva cambiato al mercato nero 1:100. (I quattro pieni mensili della mia Lada Niva venivano a costare un dollaro.)

Per lo straniero il costo del biglietto aereo verso Mosca era 500 dollari da pagare obbligatoriamente in valuta, per il locale costava 300 dollari pagati in manat locali, quindi 3 dollari cambiati al nero. Fu così che gli aerei si riempirono di donne contadine che andavano regolarmente a Mosca per vendere frutta e verdura nei mercati moscoviti (dove i prezzi erano molto più alti) ricavandone rubli, che cambiavano in dollari che al ritorno cambiavano in manat al mercato nero, per poi ripartire da capo. I Tupolev di linea oltre essere malandati erano pieni di ortaggi e puzzavano orribilmente, ma fu tramite questi contrabbandi vegetariani che i Russi di Mosca, tramite il mercato nero dei pomodori, poterono mangiare qualcosa in più delle patate.

 

 

Quando non c’è niente, ogni cosa diventa pregiata a cominciare dai metalli. Tutti i pozzetti e i tombini delle strade di Asghabat erano sprovvisti di chiusino (il coperchio) e guidare diventava uno slalom. Rubavano anche i chiusini sui pali dell’illuminazione pubblica e a volte il palo intero. Quando mi accorsi che i vicini di casa rovistavano fra l’immondizia per vedere quello che il ricco consumista occidentale buttava, cercai di non rovinare gli oggetti che li interessavano (quasi tutto) le scatolette aperte dei pomodori pelati, di tonno, sardine, scatole di cartone, ma soprattutto qualsiasi vaso in vetro con coperchio per loro era preziosissimo.

Fra le stranezze di Asghabat c’era l’obbligo (perentorio) di depositare ogni sera l’automobile in recinto autorizzato e custodito, pena una multa e il sequestro dell’automobile se trovata parcheggiata sulla strada. Per cui le passeggiate serali, a volte notturne dal deposito distante circa un chilometro erano diventate abitudinarie, vivendo regolarmente l’ebbrezza del buio della crisi, ovvero il paradosso di un paese ricco di idrocarburi che doveva rinunciare all’illuminazione pubblica. Nelle notti senza stelle e senza luna sembrava di camminare in una città surreale, si incrociavano persone, si sentivano voci e ci si scambiava suoni per non scontrarsi, perché non si vedeva niente nel buio pesto. Nonostante ciò la gente non rinunciava ad uscire.

Ho vissuto in questi due paesi falliti, durante il loro default, se pur da una posizione privilegiata, vedendo quotidianamente i loro drammi e le loro angosce che in certi aspetti toccavano forse più di quelli africani, dove non hanno mai conosciuto un minimo livello di benessere, mentre qui molti erano anche costretti a chiedere la carità, cosa completamente sconosciuta durante il comunismo il quale gli aveva sempre fornito le basi di sopravivenza che improvvisamente erano scomparse.

Io penso che la storia non sia solo un racconto di aneddoti, ma serva a capire come funziona l’animo e il pensiero umano, perché ho imparato dai numerosi anni trascorsi con popoli di tutti i colori, che l’animo umano è uguale dappertutto, indipendentemente dal livello del progresso tecnologico, quindi (benché ne pensino i razzisti) gli uomini sono tutti uguali e la storia se pur in termini completamente diversi, si ripete spesso. E’ dunque anche per questa sofferenza che ho avuto modo di vedere che mi permetto di giudicare, e continuerò a farlo, tanto stupido, oltre che criminale, chi richiama la bancarotta come soluzione del problema Italia e affida al conio di una moneta la risoluzione dell’economia. Solo chi è ricco e può avere un cospicuo capitale investito all’estero può permettersi di farlo.

Potrei continuare con altre storie, ce ne sarebbero per un libro, ma termino qui con un elemento culturale. Molti, quando si presentava l’occasione, andavano a vivere da parenti per affittare agli occidentali la casa, lasciandoci tutti gli effetti personali, quindi ebbi modo di vedere diversi alloggi in cui ho abitato dove il tratto comune che li distingueva era il grande numero di libri di cui erano piene le pareti e le collezioni di dischi, generalmente classica, che abbondavano in ogni casa. Quella generazione di persone ridotta alla fame aveva un livello culturale decisamente superiore al nostro, non era arrabbiata, non si lamentava, ed era anche curiosa e interessata.

 

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Mi scuso per la lungaggine e la prossima puntata, se sarà gradita, avverrà in tempi futuri perché al momento penso vi siate stufati della Russia. Sarà centrata su Putin, come è arrivato da dove è arrivato e perché è arrivato.

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