Omaggio a Tiziano

Saigon, 7 aprile 1972

La guerra è una cosa triste, ma ancor più triste è il fatto che ci si fa l’abitudine. Il primo morto, quando l’ho visto, stamani rovesciato sull’argine di un campo con le braccia aperte, le mani magrissime piene di fango e la faccia gialla, di cera, mi ha paralizzato. Gli altri, dopo, li ho semplicemente contati, come cose di cui bisogna, per mestiere, registrare la quantità.
Non si può parlare, scrivere di questa o di un’altra guerra se non la si va a vedere, se non si è disposti a condividerne i rischi. Me lo dicevo andando al fronte, dopo due giorni passati a Saigon con gli addetti militari alle ambasciate, i portavoce dei comandi, con gli “esperti”, a discutere di una guerra che rimaneva per me campata in aria, astratta, come se non fosse fatta da uomini.
Mi pareva che andare alla guerra fosse necessario per capirla, fosse anche una forma di lealtà nei confronti di chi la combatte. Non ho cambiato idea, ma ora che ci sono ho paura e ciò che mi fa paura è accorgermi che questa guerra non la si può più vivere da una parte del fronte, diventando in un certo modo combattenti.
I soldati dietro i quali si va diventando presto “noi”, e quelli che ci sparano addosso, gli altri, diventano i nemici, i bad guys, i “cattivi”, come gli americani hanno qui insegnato a chiamarli.
Imparando a distinguere fra i colpi di artiglieria in partenza, e regolari, e quelli in arrivo, sporadici, irregolari, che possono cadere qui vicino, s’impara automaticamente a dire “i nostri”, “i loro”.
Con la faccia affondata nella terra d’un a fossa che si riempiva d’acqua, sotto una pioggia scrosciante, mi sono sorpreso a sperare che venissero gli elicotteri americani, che venissero i “cobra” a ripulire il boschetto dal quale un paio di cecchini ci prendevano di mira.
“Se non riceviamo rinforzi entro stasera o domani siamo spacciati”, diceva il generale Minh, capo distretto di Chon Than. “I Vietcong aumentano di ora in ora. Sono ormai tutti qui attorno…” E col braccio teso aveva fatto il giro dell’orizzonte. E’ stato in quel momento che ci hanno sparato. Io stavo in piedi e vicinissimo, all’altezza dell’orecchio destro, m’è passato qualcosa con un sibilo. Secco. Breve. Lo so, l’ho sentito dire tante volte che la pallottola che senti non è quella che ti colpisce, ma è una magra consolazione quando ne senti altre passarti sopra la testa e sai che, a pochi metri da lì, uno che neppure conosci aspetta che tu ti muova per tirarti addosso e magari pensa che tu sia un consigliere americano…

Tiziano Terzani, tratto da Pelle di leopardo, diario vietnamita di un corrispondente di guerra 1973, Feltrinelli; ripubblicato – tra l’altro in In Asia, TEA 2009

EDIT:https://www.youtube.com/watch?v=InRDF_0lfHk

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