La piccola montagna, il Covid e le tagliatelle della Iole

(9 maggio 2020)

6.30 di mattina.
L’ultima volta che son stato tra i monti era ancora inverno e c’era freddo e neve e ghiaccio, oggi m’attendono caldo e prati fioriti. Più di due mesi di lontananza, quasi non ho dormito stanotte per la voglia di esser qui.
Questo è un posto bellissimo ma quando arrivo lo guardo sempre con una vena di tristezza, perché l’ambiente è un incanto ma ci han fatto una di quelle robe che si facevano in quegli anni, quando si pensava che ovunque c’era un pendio e un po’ di neve ci si poteva fare una pista da sci, che magari qui si poteva anche evitare. Ma vabbe’.

Mi incammino.
Prendo la stradina che porta al lago, tranquillo ma di buon passo. Ansimo un po’. Non cammino da tempo e c’ho aggiunto pure qualche chilo. Ma oggi è il giorno della rinascita e del ritorno alla mia piccola montagna.
In dieci minuti sono al lago. Respiro.
Fa freschino e il lago è come lo ricordavo: piccolo e di modesta grazia, con quella sua madonnina sull’isolotto nel mezzo. Mi si stringe il cuore. Il livello è basso, l’inverno è stato avaro di acqua.
Mi guardo intorno, c’è nessuno. Riparto.

Percorro il periplo del lago per metà e scorgo tra gli alberi alla mia sinistra due giovani che dormono in terra con la testa posata sullo zaino. Felpa e pantaloncini corti, nemmeno un materassino. Se ne ricorderanno, quando avranno circa la mia età.
Avanti appena prendo il sentiero a sinistra che s’allontana dal lago e subito si impenna.
C’è un tratto pavimentato a pietre grosse, largo e piuttosto ripido, strada da boscaioli. Salgo con passo costante e dopo un po’ comincio a faticare, ma son felice così.
Poco più avanti incrocio il piccolo cartello che indica la via per il luogo in cui Charlie Alpha si schiantò, un po’ più su, trent’anni fa. Ero ragazzo e mi ricordo bene quella tragedia: gli albori dell’elisoccorso, il volo tra la nebbia e quattro morti. Mi concedo un pensiero, poi tiro dritto.

Io e il bosco. Foglie secche sotto piedi. Riconosco quasi una ad una le pietre che incontro, aggiro, calpesto.
Arrivo alla cresta, sempre tra gli alberi, e svolto a destra verso la frana.
Chissà come sta la frana. D’inverno molla giù di tutto e si inghiotte il sentiero. Quest’anno sarà pure peggio del solito.
M’affaccio su quella rovina di pietre che ti si apre davanti come fosse venuta giù ieri tutta quanta all’improvviso, invece sta lì dai tempi dei tempi. Si muove, lei, ma solo quando nessuno la guarda. Comincia cento metri sopra e prosegue fin giù in fondo dove nemmeno si vede.
Il sentiero ovviamente non c’è quasi più. Si coglie bene la direzione ma la traccia è in buona parte scomparsa. Guardo su dove ci stanno le solite pietre in bilico. Non cadete adesso, per favore.
Qui si passa svelti, senza esitare. Mi decido e vado.
I sassi si muovono e s’assestano sotto i miei piedi ma va bene, è normale, conosco questo posto e sono tranquillo. È uno dei primi giri che ho fatto da bambino, uno dei primi mie assaggi di montagna.
Passo indenne il tratto roccioso e proseguo di nuovo tra la vegetazione per poi trovarmi poco dopo sulla seconda parte franosa, più infida. Qui c’è solo terra, brecciolino e sfasciume e i segni di passaggi recenti son quasi inesistenti. È andato giù tutto anche qui, come al solito. Ricordo quella volta in aprile col temporale e tanti rivoli d’acqua che portavano via la terra sotto i piedi (quella volta, come spesso accadeva, avevo lo zaino colmo di salsicce, vino e buonumore).
Per fortuna adesso è asciutto: qui serve essere accorti più che svelti, perché il pericolo non è sopra ma sotto: si muove tutto, scivolo un attimo, m’aggrappo a un brandello di cavo posato chissà quanti decenni fa, ripiglio il controllo e con due salti sono di nuovo nel bosco.

Avanti un poco la via spiana, poi sbuca sulla radura: un terrazzo erboso tra il bosco, con la montagna che incombe da una parte e la valle di sotto dall’altra. Il fiume là in basso appare nero, costellato però dei bei primi riflessi di sole della giornata. Qui ritrovo l’oratorio in sasso e sul retro il suo bivacco.
Giro attorno alla chiesetta e apro la porta in ferro, tanto per respirare l‘aria di allora. Qui ho trascorso tante notti a grigliare carne, bere vino, giocare a carte e ridere davanti al fuoco. Con quanti amici sono stato qui, a un passo da casa e dal paradiso.
Il locale è piccolo e sporco come sempre. E accogliente, come sempre.
Esco, poso a terra lo zaino e bevo un sorso d’acqua. Ci son le solite tracce di falò nel prato. Proprio qui, accanto a quelle pietre e incoraggiato dal calore delle braci, diedi il primo timido bacio alla bella che fu il mio grande amore di ragazzo.
Riparto.

Seguo la via che taglia di sbieco il fianco della montagna e giungo sullo sperone che incombe sulla frana, dove il sentiero ripiega verso la cresta non prima di averti concesso uno sguardo ampio sulla pianura.
Salendo sfioro di nuovo il luogo della tragedia, questa volta dall’alto. Saltello sulle rocce, mi arrampico un po’ sognando cime dolomitiche, aggiro prima e raggiungo poi la parte più spettacolare e verticale di questa mia bella montagna e in breve sono sulla cresta. Raggiungo la cimetta deviando qualche metro dal sentiero: sono su un minuscolo belvedere roccioso da cui ammirare tutt’attorno tutto l’Appennino. Da qui con passi svelti percorro il crinalino che poi sale su facile pendenza erbosa e finalmente guadagno la cima con la croce di vetta, il prato che di là si tuffa sul lago e la sua visuale privilegiata.
Perché questa è una cima modesta, ma con la fortuna di starsene tutta sola, a mezza via tra il crinale e le colline: di qua c’è il Gigante e tutto quel che gli sta attorno, di là le alturette del medio Appennino, poi la Val Padana e se sei fortunato, a far da fondale, il profilo delle Alpi. Oggi no, c’è foschia e la vista s’arrende ai primi accenni di pianura.
Mi guardo attorno e controllo bene. C’è la Pietra che svetta laggiù, pur vista da sopra, con la sua buffa sagoma. Là in fondo la piramide ancora un po’ innevata del Cimone, poi il Gigante con le sue tre cime e tracce di neve nei canaloni. Subito a fianco il Cipolla e il Prado che abbracciano la conca glaciale del Bargetana. Da lì scorro tutto il crinale verso ovest fino alla Nuda e al Gendarme, mentre da dietro fan capolino le marmoree creste delle Apuane. Poi ci sarebbe il mare, che oggi si intuisce ma non si vede, e infine a chiudere lo sguardo di qua il Casarola e l’Alpe. Quasi mi meraviglia – ma mi conforta – che siano ancora tutti lì, indifferenti a quel che accade di sotto.
Intanto arriva un tale, solo, salito dalla via opposta. Ci salutiamo. Nei suoi occhi vedo il riflesso della mia stessa quieta gioia. Quelli che amano questo posto si riconoscono al volo.
Mi siedo. Sono un po’ stanco.
Vent’anni fa avrei estratto dallo zaino due panini col salame e una lattina di birra.
Oggi mi accontento di un po’ di frutta secca e tè caldo. Lo so, è meno epico ma siamo prossimi alla cinquantina e ci dobbiamo adattare.

Si riparte: un ultimo sguarda per controllare che davvero tutto stia dove deve stare. Sì, è tutto a posto. Saluto ancora il Gigante (ci vedremo molto presto, amico mio).
Imbocco per qualche metro la direttissima, poi però decido di far la via un po’ più lunga sulla cresta, per godermi ancora un poco il panorama: una carrellata in campo lungo per abbracciare con lo sguardo tutta l’infilata delle montagne, poi via. Pochi minuti e il sentiero fa una giravolta e, proseguendo, indugia a lungo al limitare del bosco, come non volesse saperne di perdere la visuale su tutta quella bellezza. Poi pure lui si arrende e si butta deciso tra gli alberi, si fa ripido e quasi ti invita a correre. Resisto alla tentazione perché pure le mie ginocchia non son più quelle di vent’anni fa. Il richiamo però è forte. Accelero, accenno qualche passo di corsa, saltello e mi faccio anche un po’ male, ma chi se ne frega.

Arrivo di nuovo giù al lago, passo davanti alla baracchina e mi vien voglia di polenta col cinghiale. Mi andrebbe bene anche una birretta. Anche solo un caffè, giusto per assaporare un altro poco di normalità in questa piccola bolla fuori dal tempo, prima di scendere a valle. Ma ovviamente è chiusa. Manca l’odore di brace e manca il consueto vocìo di gente allegra seduta attorno. C’è solo lì accanto un tizio che pesca. Saluto con un cenno della testa – i pescatori non vanno mai salutati a voce, è una roba che li manda nei matti – e passo oltre, costeggiando il lago sulla sponda opposta rispetto all’andata.
Incrocio una donna con cane e figlioletta. Paiono felici, tutt’e tre. Saluto pure loro. Tutt’e tre.
Sfioro con le mani i tronchi enormi e nodosi di alcuni splendidi faggi e seguendo l’intreccio delle loro radici mi ritrovo di nuovo ai piedi della pista da sci, che squarcia la vegetazione come una colata che penseresti di lava e invece è solo erba. Che però s’è mangiata il bosco. Vabbe’. Riprendo la strada bianca verso il parcheggio dove tolgo gli scarponi, inspiro quest’aria fresca che sa ancora di primo mattino e felice risalgo in auto.

Ho un po’ fame.
Magari mi fermo a mangiare due tagliatelle dalla Iole.
Ma è chiusa pure la Iole, ovviamente.Sarà per la prossima volta.
Tanto qui ci torno ancora. Ci tornerò sempre, qui, sulla mia piccola montagna.

Articolo di @slego con le rotelle

 

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