“La LIS: chi è costei?”

Avrete notato che in questo periodo chi fa conferenze stampa è spesso affiancato da interpreti LIS (l’acronimo ci frega, in realtà è Lingua dei Segni Italiana, non lingua italiana dei segni). Così, ho pensato di cogliere l’occasione per dire qualcosa su questa lingua, che è estremamente affascinante e, come ogni lingua straniera, studiarla arricchisce tanto.

Bene, comincio da alcune nozioni di carattere storico. Codici di comunicazione manuale esistono da tantissimo tempo e, verrebbe da dire, dovunque ci siano almeno due persone sorde che vogliono comunicare tra loro. Le lingue dei segni sono “nate”, però, all’interno degli istituti speciali dei sordi (anche se in questi luoghi era presente una fortissima vocazione a insegnare ai bambini sordi l’uso della parola…ma non hanno potuto impedire che gli stessi bambini usassero tra di loro codici visivo-manuali!). Tuttavia, le lingue dei segni a lungo non sono state riconosciute come lingue in senso stretto e, anzi, sono state considerate una pantomima, un linguaggio mimico-gestuale surrogato di quello orale. Per estensione, le persone sorde sono state a lungo considerate “stupide” (vd. L’espressione inglese “deaf and dumb”= “sordo e stupido/tardo”). Ancora oggi si usa spesso l’espressione “sordomuto” che, però, è scorretta perché in realtà l’apparato fonoarticolatorio dei sordi è integro (cioè sono perfettamente in grado di parlare): è che è difficile lo sviluppo della lingua orale se non si ha il feedback acustico su ciò che si dice (è un po’ come quando da bambini andavamo sott’acqua e provavamo a parlare…non si capisce niente). “Sordi” è più che sufficiente, insomma (e a dirla tutta, lo dice pure una legge del 2006).

È però solo a partire dagli anni ’60 del Novecento che si effettuano studi sistematici dell’American Sign Language (ASL), portando a identificarne la struttura e le regole interne (gli studi sono di William Stokoe, un linguista). L’idea è che “i codici manuali” usati da alcune persone sorde non fossero surrogato delle lingue orali, bensì lingue in senso stretto e che, quindi, andassero studiate come tali. Traendo ispirazione dal lavoro di Stokoe, negli anni ’70 il gruppo di ricerca dell’Istituto di Psicologia del CNR – coordinato da Virginia Volterra – ha cominciato le ricerche sulla Lingua dei Segni Italiana, su cui mi concentro un po’ di più qui (i suoi risultati sono compendiati in un libro del Mulino).

Forse è proprio il riconoscimento tardivo delle lingue dei segni che ha imposto la consuetudine – almeno nei manuali che è possibile consultare – di cominciare da definizioni in negativo della Lingua dei Segni, ovvero dicendo che cosa la Lingua dei Segni non è, ovvero:

1- La lingua dei segni non è la pantomima che usano gli udenti;

2- La lingua dei segni non è universale, ma ve ne sono tante varietà quante sono le comunità di sordi che le utilizzano (a livello nazionale, con alcune piccole varianti locali o regionali…un po’ come i dialetti); inoltre, le lingue dei segni variano anche nel tempo;

3- Le lingue dei segni non sono linguaggi mimico-gestuali privi di regole.

Nelle lingue dei segni si distinguono componenti manuali e non manuali. Le prime, più interessanti per questa nostra introduzione, interessano direttamente l’esecuzione dei segni ed è qui che si possono distinguere le unità minime della lingua.

Le unità minime – definite anche “parametri formazionali” – sono:

1- Luogo dell’esecuzione del segno (nella LIS sono 15);

2- Configurazione: la forma che la mano (o le mani) assumono nella esecuzione del segno (sono 38);

3- Movimento dell’esecuzione del segno (sono 32).

4- Orientamento: la direzione del palmo delle mani rispetto a chi produce il segno (sono 6).

Ogni singolo segno della LIS è connotato specificamente su ognuno di questi quattro parametri (pensate che varietà di segni!). E diciamo anche che, in linea di massima, l’articolazione di un segno DEVE soddisfare il rispetto di requisiti (cioè regole) in ognuno di questi parametri. Altrimenti il segno non ha senso (oppure è un lapsus linguistico…sì esistono anche nelle lingue dei segni!). Insomma, c’è inventiva sui segni…ma non troppa altrimenti non ci si capirebbe niente! Raramentissimamente nella LIS si fa lo spelling delle parole; serve soltanto per nomi/cognomi di persona, oppure parole estremamente specifiche, oppure ancora per acronimi.

In particolare, ritornando ai segni, mi concentro qui su luoghi e configurazioni. I luoghi in cui vengono eseguiti i segni sono compresi in un’area che comprende grossomodo l’area superiore del corpo (volto, tronco, braccia) di chi segna e lo “spazio neutro” di fronte ad esso. La LIS – come altre lingue dei segni – ha contratto progressivamente il numero di luoghi per eseguire i segni, per rendere più facile non solo l’articolazione, ma soprattutto la percezione. Quanto alle configurazioni, ovvero la forma delle mani che compongono i segni, esse riprendono generalmente i numeri (dall’uno al cinque) e le lettere dell’alfabeto manuale. Qui sotto riporto una figura con l’alfabeto manuale della LIS:

Miniatura

Dal punto di vista sintattico, invece, la costruzione della frase presenta rilevanti differenze tra italiano e LIS. Si può dire che le lingue dei segni abbiano trasformato una limitazione – l’utilizzo del solo canale visivo – in una risorsa: la sintassi della LIS infatti può essere definita “quadridimensionale”. Vediamo perché e tiriamo un po’ di somme.

Le lingue orali hanno una sola estensione, cioè quella temporale; ovvero devono rispettare una condizione di sequenzialità – disporre le parole nell’ordine e nei tempi giusti – perché le frasi siano dotate di senso. Questa condizione non si dà come unica per la LIS – e per le lingue dei segni in generale – visto che oltre a un criterio di ordine e sequenza delle parole, che comunque c’è (soggetto+complemento+verbo), chi segna ha a disposizione le tre dimensioni dello spazio davanti a sé per comunicare; talvolta, più dimensioni possono essere anche sfruttate simultaneamente.

Immaginate che lo spazio vuoto di fronte a voi sia una sorta di “tela” sulla quale disegnate (facendo i segni giusti, nell’ordine giusto) il messaggio che volete fare arrivare. Quella “tela” è quanto vede una persona sorda che usa i segni per capire cosa volete dirle. È molto importante, ovviamente, che abbiate cura di quella tela (ordine e precisione nei segni e nell’uso dello spazio sono determinanti!). Con la pratica e l’uso, si capisce come usare quella tela e quanto “dura” (cioè quando si cambia discorso o periodo).

Il compianto Oliver Sacks, che ha scritto un bel libro intitolato “Vedere voci” e che vi consiglio fortemente di leggere, si spinge a dare un abbozzo di definizione del processo cognitivo alla base di questo uso “linguistico” dello spazio e parla di “grammaticizzazione” dello spazio compiuta dai sordi. È difficile da concepire per gli udenti, ma i sordi che usano le lingue dei segni sono perfettamente a proprio agio con questa operazione. Pare infatti che il cervello tra persone udenti e sorde (specie quelle sorde dalla nascita) si sviluppi proprio in modo diverso (gli udenti a “sentire” la lingua, i sordi a “vederla”), dimostrando ancora una volta quanto la mente umana sia straordinaria nell’essere plastica e adattabile alle circostanze e al mondo esterno. Insomma, se non puoi sentire una lingua, trova il modo di metterla in scena perché tu possa vederla e “ascoltala” così!

 

CoffeyM

 

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