Il diritto all’oblio: questo “sconosciuto”

C’è una caratteristica di Internet, e soprattutto del web, che ormai abbiamo imparato a conoscere molto bene: la permanenza delle notizie, delle immagini e più in generale di ogni tipo di dato all’interno del sistema. Nell’era della carta stampata e della televisione le notizie hanno un ciclo vitale molto breve: la rapidità con cui esse si susseguono a livello mondiale comporta che per esigenza di novità oggi non si parla di quello di cui si è parlato ieri e domani ci si dimenticherà quello che si è detto oggi. Il mondo è veloce, le notizie girano e piano piano i nomi scompaiono dalle cronache, tanto che diventa oggettivamente complesso andare a tracciare con precisione fatti avvenuti anni prima (e chi non si ricorda quei bei film anni ’80/’90 dove i protagonisti immergono il naso in angoli oscuri della biblioteca per cercare vecchi articoli di giornale?). Così non è nell’era di Internet: non importa che un dato fatto sia successo da cinque minuti o vent’anni, basta una semplice ricerca su Google o su YouTube per riportare alla luce notizie anche remote con tutti i dati del caso. In sostanza, si può essere perseguitati per degli errori o delle ingenuità in eterno: la rete non dimentica.

Intanto, giusto per fare chiarezza, cominciamo a distinguere il diritto all’oblio dal diritto alla privacy.

Il diritto alla privacy nel panorama giuridico italiano a sua volta si distingue in due: da un lato c’è il diritto alla riservatezza, che va inteso come “diritto ad escludere gli altri da sé” (in accezione negativa quindi: “io ho diritto che tu non faccia”), dall’altro c’è il diritto alla protezione dei dati personali, il quale all’opposto si concretizza in positivo come il diritto ad avere il controllo sulle informazioni che ci riguardano (“io ho il diritto di fare”). Il Codice Privacy (d.lgs 196/2003) si occupa proprio di questo secondo aspetto, e stabilisce che ciascuno ha il diritto di ottenere conferma dell’esistenza o meno di dati a proprio carico, di sapere quali sono e di poter chiedere l’aggiornamento, la cancellazione, il blocco o la trasformazione di questi dati, che nella legge vengono distinti fra anonimi, identificativi e sensibili (senza stare a fare un pippotto su ognuna di queste categorie, si può dire che più il dato è “intimo” più è protetto). Il diritto alla riservatezza, invece, è tutelato sia dalle norme penali a salvaguardia della libertà personale, sia da quelle a tutela dell’onore e della reputazione: è frequente ad esempio il caso della diffamazione online, che contrariamente a quanto generalmente si pensa è configurabile a prescindere dalla rispondenza al vero di quanto viene scritto/mostrato (basta che ci sia una lesione all’onore o alla reputazione del soggetto).

Evidentemente, i due aspetti del diritto alla privacy si intersecano: è la permanenza di un certo dato all’interno del sistema che mi procura un danno, ed è tramite il diritto alla protezione dei dati personali (che mi garantisce il controllo sui miei dati) che posso chiedere ai vari host provider di rimuoverlo o modificarlo.

 

Ma quindi, il diritto all’oblio?

Il diritto all’oblio è un diritto digitale di nuova creazione, elaborato in via giurisprudenziale, che secondo una prima interpretazione si configurava una specie di diritto alla protezione dei dati personali nella sua dimensione storica: “Il giusto interesse di ogni individuo a non restare indeterminatamente esposto ai danni ulteriori che arreca al suo onore e alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia legittimamente divulgata nel suo passato”*. In sostanza, stiamo parlando della possibilità di cancellare “forzatamente” una notizia (dal sito o dal motore di ricerca) che altrimenti rimarrebbe cristallizzata in eterno, sulla base di due presupposti: l’inutilità sociale dell’informazione e la lontananza nel tempo dei fatti. Secondo un’interpretazione più recente**, invece, il diritto all’oblio sarebbe nato per gemmazione dal diritto all’identità personale, e quindi più che nel campo della protezione dei dati rientrerebbe nel diritto alla riservatezza, ma si tratta più che altro di questioni di Lana Caprina: in tutti i casi stiamo discutendo di fatti, legittimamente divulgati, avvenuti molti anni fa, di nessun interesse sociale, che prima di Internet sarebbero stati dimenticati nel giro di un mese e che invece adesso permangono all’interno del sistema, causando non poco danno agli interessati. Ponete il caso, ad esempio, di una persona che viene indagata per un reato molto brutto ma poi viene assolta: anche vent’anni dopo basterà googlare il suo nome per vederlo associato ad una serie di fatti infamanti, trovando numerose informazioni non più aggiornate (visto come il giornalismo tratta queste questioni). O altrimenti prendete anche il caso di uno che ha effettivamente commesso degli illeciti (magari anche minori), ma l’ha fatto anni e anni prima e ha pagato il suo debito, e non riesce comunque a liberarsi del “fantasma” digitale di quei fatti. In queste circostanze il diritto all’informazione e il diritto di cronaca vengono messi in secondo piano rispetto alla riservatezza e l’interessato può chiedere che quelle informazioni siano cancellate.

 

E funziona?

Ecco… sì e no. Il discorso è che per quanto ci si sforzi di cancellare da Internet un certo contenuto, è estremamente difficile riuscirci. Prima di tutto per la vastità della rete: anche rimuovendo da ogni singolo, remoto e oscuro angolo del web ogni riferimento niente potrà dare a nessuno la garanzia che qualcuno non abbia scaricato quei contenuti e li abbia poi rimessi online (così che altri potessero riscaricarli e riuploadarli, e via all’infinito). In più, generalmente chi agisce per ottenere la rimozione di materiale online incappa nel cosiddetto “Effetto Streisand”: il semplice tentativo di rimuovere la notizia riaccende l’interesse del pubblico intorno alla notizia stessa, col risultato di sollevare di nuovo un grande clamore intorno a vicende che magari ormai erano pressoché cadute nel dimenticatoio generale. Allo stesso tempo però l’effetto Streisand è un rischio, ma non per forza una certezza: con un minimo di collaborazione fra le varie parti (autore del contenuto, interessato alla rimozione, host provider eccetera) è certamente più semplice ottenere l’effetto desiderato, ma purtroppo non è assolutamente un epilogo scontato.

In conclusione, vi lascio con un link all’intervista rilasciata dal garante della Privacy Antonello Soro, la quale mi sembra individui con esattezza le armi più potenti a difesa delle vittime della diffusione incontrollata delle proprie informazioni: l’educazione e la consapevolezza. Internet non si può fermare e sarebbe folle e ingiusto provarci. Però possiamo sempre imparare a usarlo.

 

*Cass. civ., III sez., sent. 9 aprile 1998, n. 3679

**Cass. civ., III sez., sent. 5 aprile 2012, n. 5525

I commenti sono chiusi.