Per PALLACORDA – completamento dell'articolo di Ipazia

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  • Questo topic ha 3 risposte, 3 partecipanti ed è stato aggiornato l'ultima volta 9 anni, 4 mesi fa da Anonimo.
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  • #11703
    LanaCaprina
    Partecipante

    Pallacorda, scusa se mi rivolgo a te così, ma le notifiche di Disqus funzionano veramente in modo farlocco. 🙂
    Ho scritto un pezzo a completamento dell’articolo di Ipazia sull’eutanasia, che analizza un po’ nello specifico i casi Welby e Englaro. Se per te va bene, potresti inserirlo nel suo articolo? Merci.

    Copincollo il pezzo:

    A completamento dell’articolo di @Ipazia, mi piacerebbe esaminare un attimo i casi Welby ed Englaro, che “di fatto” hanno definito la materia all’interno della legge italiana.

    Partiamo dicendo che, all’interno della Bioetica di fine vita, i casi si dividono sostanziamente in due tronconi:
    1) Quelli in cui il paziente è cosciente e pienamente in grado di intendere e di volere
    2) Quelli in cui il paziente è incosciente, o comunque incapace di intendere e di volere.

    I casi Maynard e Welby fanno capo al primo gruppo, il caso Englaro al secondo gruppo. Cominciamo quindi dal caso Welby:

    – Caso Welby –
    A) La storia:
    Piergiorgio Welby era affetto da una malattia neurodegenerativa irreversibile, malattia con la quale aveva convissuto per tutta la durata della sua vita ma che aveva raggiunto uno stadio talmente avanzato da comportare la totale paralisi del corpo. Non solo non poteva muoversi (era obbligato a stare immobilizzato a letto), ma non poteva nemmeno parlare, alimentarsi o persino respirare autonomamente. Era, insomma, in tutto e per tutto dipendente dalle macchine e dall’assistenza del personale medico, ma le sue facoltà mentali erano perfettamente intatte, tanto che era in grado di esprimere la sua volontà attraverso un sintetizzatore vocale. Infatti, lui in prima persona si fa portatore di una richiesta che rivolge prima ai medici e poi al panorama politico: interrompere i processi meccanici che lo tengono in vita artificialmente per poter andare incontro alla morte, dato che per lui quel tipo di esistenza era diventata massimamente indesiderabile e nociva.

    B) Il panorama normativo:
    In Italia, come sappiamo, non esiste una legge che disciplina i casi di questo genere, di conseguenza valgono le norme comuni dettate in materia di omicidio (chiunque cagiona la morte di un uomo, è punito). Ecco perchè la richiesta di Welby venne, in prima istanza, respinta: chiunque avesse staccato le macchine sarebbe stato perseguito per omicidio, in questo caso omicidio del consenziente. Welby, però, viene a contatto con un medico anestesista (Mario Riccio) disponibile ad accogliere la sua richiesta di essere staccato dalle macchine, pur consapevole del rischio di essere accusato di omicidio. Cosa che, in effetti, avvenne: all’indomani dello spegnimento il medico venne raggiunto da una chiamata in giudizio per omicidio sul piano penale, e da una procedura disciplinare dell’ordine dei medici sul piano professionale.

    C) La sentenza
    Il tribunale di Roma, davanti al quale si era svolto il giudizio, emette nel 2008 una sentenza sorprendente, considerando che il verdetto sembrava già scritto: non solo assolve Riccio, ma ridefinisce il perimetro delle competenze della professione medica.
    I giudici avrebbero potuto insistere sul fattore del consenso prestato e costantemente ribadito da Welby per quanto riguarda la sua morte, ma sarebbe stato un argomento rischioso e debole. Il “bene vita”, infatti, nel nostro ordinamento gode di uno status particolare: non è solo un bene “inviolabile”, cioè tutelato dalle aggressioni da parte di terzi, ma anche “indisponibile”, ovvero tutelato dalle stesse disposizioni del titolare. L’indisponibilità del bene vita ha una lunghissima tradizione, che affonda le proprie radici sia nella morale cattolica che laica (faccio in particolare riferimento alla filosofia del giusnaturalismo e tutte le sue derivazioni).

    Su cosa poggia, allora, l’architrave della sentenza? Sul bilanciamento tra il dovere del medico di curare il paziente (secondo il giuramento di Ippocrate) e il diritto del paziente di non essere sottoposto a trattamenti medici contro la sua volontà. Secondo la nostra Costituzione, infatti, un trattamento sanitario (anche salvavita) imposto con la forza, sarebbe passibile di essere giudicato a titolo di violenza privata. In pratica viene stabilito un principio per il quale il dovere del medico (di cura e tutela della vita) si estende fino a quando non incontra un rifiuto da parte del paziente, poi si arresta. Sicchè non solo Riccio non ha violato alcun obbligo di medico, ma anzi ha compiuto la sua professione nel modo più corretto possibile.*

    D) Differenze col caso Maynard
    Sebbene il caso Welby e il caso Maynard facciano parte dello stesso gruppo (casi in cui il paziente è cosciente e in grado di autodeterminarsi), fra i due c’è una differenza fondamentale: Welby chiedeva di interrompere le cure, Maynard chiedeva che le fossero somministrati farmaci letali. Nel caso Welby quindi, la morte è una conseguenza (immediata) della richiesta del paziente, che però ha un altro oggetto. In realtà quindi solo nel caso Maynard si può parlare di una vera e propria “eutanasia”, cioè di un comportamento attivamente volto a mettere fine alla vita del malato, e non come conseguenza passiva di altre azioni svolte.

    – Caso Englaro –
    A) La storia:
    Qui abbiamo una ragazza che rimane vittima di un incidente stradale, sopravvivendo ma riportando delle lesioni cerebrali gravissime che di fatto la conducono a uno stato di coma vegetativo permanente (coma irreversibile). In questo caso quindi, la richiesta di interruzione delle procedure salvavita non proviene dal diretto interessato, ma da un terzo che si fa interprete della sua volontà (in questo caso il padre, Beppino Englaro).

    B) Il panorama normativo:
    E’ ovviamente lo stesso del caso Welby, ma nel caso Englaro si aggiunge la difficoltà di dimostrare che il consenso all’interruzione delle cure sia effettivamente proprio della ragazza, e non del padre. Tralasciando le calunnie immonde di cui è stato oggetto Beppino Englaro, è concepibile che ci siano dei casi in cui siano i parenti, più che l’ammalato, a desiderare una sua dipartita. E questo sia per motivi, per così dire, “umanitari” (la sofferenza che comporta vedere un familiare ridotto in queste condizioni) sia per altri meno nobili e più raccapriccianti (il desiderio di ereditare).

    C) Le sentenze
    Nel caso Englaro ci sono due sentenze (agli antipodi) e una di attuazione. La prima sentenza, che rigetta la richiesta di Beppino Englaro, è del tribunale di Lecce che taglia corto: dice che la richiesta è assimilabile a una richiesta di eutanasia, che in Italia è vietata, e oltretutto il bene della vita è indisponibile anche per il titolare di tale bene, figurarsi se poi la richiesta viene da un terzo. Insomma, un no secco, tanto che la sentenza viene scritta in cinque minuti (figuratevi che è una pagina sola).

    La seconda sentenza che ci interessa, invece, esce molti anni dopo (nel 2007), ed è figlia della Cassazione: non solo è molto più corposa (è quasi un libro), ma risente moltissimo del dibattito esploso nel frattempo su queste materie, anche a livello internazionale. Che cosa stabiliscono quindi i giudici di Cassazione? Stabiliscono che non solo questa situazione non può essere assimilata all’eutanasia (in quanto l’oggetto della richiesta, l’interruzione delle terapie salvavita, è diverso da quello dell’eutanasia), ma anche che nessuno può dirsi in grado di stabilire che la vita debba essere il bene supremo per tutti, perchè vivendo in una società multietica, multivaloriale e multiculturale, ciascuno ha un proprio schema di valori, che deve essere ricostruito qualora l’interessato non sia più in grado di esprimerlo, attraverso vari fattori (desideri, inclinazioni, convinzioni religiose, stile di vita, etc).

    Esistono quindi, secondo la Cassazione, due criteri che devono verificarsi perchè la richiesta di interruzione dei trattamenti sanitari da parte del tutore sia soddisfatta:
    1) Un criterio oggettivo -> il medico deve diagnosticare un coma vegetativo irreversibile**, senza alcuna possibilità di ripresa purchè minima
    2) Un criterio soggettivo -> la richiesta di interruzione deve essere realmente espressiva della volontà del paziente, in base a riferimenti chiari e univoci.

    Della sentenza del tribunale di Milano non parlerò, prima di tutto perchè il post è già diventato troppo lungo e in secondo luogo perchè si limita a recepire il principio esposto dalla Cassazione (che non può decidere nel merito).***

    *: E’ interessante il fatto che questa sentenza è interamente costruita sul medico, non si applica quindi a una persona che non esercita quella professione (ad esempio un parente). Quello rimane omicidio del consenziente.

    **: In realtà la questione qui è un po’ più complessa, in quanto nel dibattito scientifico questa diagnosi non è mai pacifica: ci sono neurologi che sostengono che non si possa escludere l’eventualità di un risveglio

    ***: Se qualcuno fosse interessato, si potrebbe approfondire un po’ ricordando le varie tappe dello squallido teatrino messo in piedi da Berlusconi e dai suoi degni compari per bloccare in ogni modo la sentenza.

    #11706
    LanaCaprina
    Partecipante

    A posto, ci ha pensato Conte (pensavo lo potesse fare solo il moderatore). Grazie lo stesso 🙂

    #11707
    Pallacorda
    Amministratore del forum

    L’articolo va bene, non c’è problema 😉

    #11725
    Anonimo
    Inattivo

    Solo una prova, per vedere se funzionano le credenziali.

    Grazie.

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