Finanziamento Pubblico ai Giornali

Da molti anni, e per il grande pubblico dal 25 aprile 2008 con il V2-Day, il tema del finanziamento pubblico ai giornali come sintomo di sperpero delle risorse pubbliche ha fatto capolino nel dibattito politico italiano.

La stampa come ogni mezzo di diffusione di idee e informazioni è sempre stata soggetta nel tempo a varie limitazioni, ancora oggi la Libertà di Stampa è fortemente limitata quando addirittura inesistente in molti Paesi nel mondo, come si evince dai dati forniti da Reporter senza Frontiere dove dominano per libertà i Paesi del Nord Europa, l’Italia è al 57° posto e in fondo alla classifica troviamo Paesi come l’Eritrea, ma anche la Corea del Nord, la Siria, la Cina e l’Iran.

Pur non essendoci una correlazione diretta fra il sostegno statale all’editoria e la qualità della stampa in un Paese, è curioso notare come a vario titolo in quasi tutti i Paesi UE esista un contributo. Per esempio, come si evince da questo articolo di Gabriella Colarusso per Lettera43 nel 2011 la Finlandia spendeva qualcosa come 59€ all’anno per abitante in contributi all’editoria, contro i 15€ medi all’anno dell’Italia, terza per contribuzione. Il dato allarmante è che in Italia non si legge a sufficienza in proporzione alla contribuzione, rispetto alla Germania, per esempio.

Ma perché tanti Paesi così oculati nelle spese, così attenti all’innovazione, così all’avanguardia continuano a sostenere un settore che da molti viene considerato obsoleto, “la stampa è morta” (cit.)?

Dal punto di vista normativo, in tutti questi Paesi, sotto varie forme, viene garantito il Diritto all’Informazione che si inquadra direttamente o indirettamente con l’articolo 19 della Dichiarazione dei diritti dell’Uomo:

Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.

Articolo che ricorda molto da vicino l’articolo 21 della nostra Costituzione (riportato non integralmente):

Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.
Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili.

Nel tempo infatti, proprio la Corte Costituzionale con varie sentenze ha stabilito anche in Italia il Diritto all’Informazione, per esempio la relazione Cheli riporta:

la Corte, in questi anni, ha, infatti, gradualmente costruito le basi, non solo giuridiche, ma anche culturali, di un “diritto dell’informazione” che ha concorso ad arricchire il quadro delle libertà costituzionali, anche alla luce di orientamenti espressi, tanto in sede scientifica che giurisprudenziale, nei vari paesi dell’Unione europea, oltre che nell’ambito delle stesse istituzioni comunitarie. E’ accaduto così che, nella definizione degli indirizzi relativi a questo nuovo “diritto dell’informazione”, la Corte si è spesso allontanata dalla lettura prevalentemente “individualista” dell’ art. 21, che era prevalsa nella fase iniziale della sua giurisprudenza, per avvicinarsi ad una lettura di tipo “funzionalista”, in quanto ispirata alla visione del collegamento esistente tra la “libertà di informazione” e le forme proprie di una “democrazia pluralista” quale è la nostra.
Questa visione ha condotto, da un lato, ad accentuare il carattere “fondamentale” (anzi “fondamentalissimo”) dell’art. 21 cost., inteso come “pietra angolare” della democrazia (sent. n. 84/1969), dall’altro a valorizzare la distinzione tra la disciplina dei contenuti e la disciplina dei mezzi della comunicazione di massa, intesi come “servizi oggettivamente pubblici o comunque di pubblico interesse” (sent. n. 94 del 1977).
La conseguenza è stata che, negli orientamenti di questa giurisprudenza, il “diritto dell’informazione” si è venuto sempre più a intrecciare con una sorta di “teoria generale della democrazia”, che la Corte ha elaborato spinta dall’esigenza di ricercare il fondamento della “libertà di informazione”, anche al di là dei contenuti specifici dell’art. 21, nei princìpi ispiratori della nostra forma di Stato che, in quanto democratica, deve trovare la sua base nell’esistenza di un’opinione pubblica “consapevole”, cioè informata. Su questo piano si può, dunque, cogliere il senso di quella “coessenzialità”, che la Corte, in numerose pronunce, ha riferito al rapporto tra la libertà di espressione usata a fini informativi e la forma di Stato democratico, la cui essenza implica “pluralità di fonti di informazione, libero accesso alle medesime, assenza di ingiustificati ostacoli legali, anche temporanei, alla circolazione delle notizie e delle idee” (la sent. n. 105/1972, ripresa anche nella sent. n. 94 del 1977)”.

In parole più semplici c’è Democrazia solo dove c’è Diritto all’Informazione, e cioè dove è garantita la pluralità delle fonti di informazione e il libero accesso alle medesime.

In rispetto alla pluralità dell’informazione in tutti i Paesi, Italia compresa, si procede a finanziare in varie forme l’editoria, con contributi diretti o indiretti o con una combinazione di entrambi.

In questi ultimi anni si è avuta in Italia una progressiva riduzione di questi contributi, ad opera del Governo Berlusconi (2008-2011) e del Governo Monti (2011-2013), vediamo ora il nuovo quadro normativo, ben diverso da quello del 2006 cui fa riferimento Grillo in questo suo articolo del 2012 in cui contesta ai grandi giornali, detentori di contributi al 2006 (vero all’epoca ma ora sono dati obsoleti) di sottopagare i precari (nel 2012). Per quanto i precari siano e saranno sempre una preoccupazione, la correlazione delle due cose è fuorviante e strumentale, visto che mai nessun contributo è stato erogato in base al salario corrisposto ad ogni singolo giornalista e/o pubblicista precario.

In Italia il sistema dei finanziamenti diretti fa capo al Decreto Legge 18.05.2012 n° 63 , G.U. 20.07.2012 che potete trovare integralmente qui.

Per maggiori informazioni vi rimando a questo articolo di Andrea Zitelli per ValigiaBlu dove c’è una disamina piuttosto puntuale del decreto, per quello che riguarda il merito dell’articolo che state leggendo ci limitiamo invece a riassumere alcuni punti salienti che dimostrano una volta in più come la propaganda anti-finanziamenti sia priva di molti argomenti concreti, per esempio il decreto per i giornali nazionali stabilisce che debbano vendere almeno il 25% delle copie che stampano (quelle locali almeno il 35%), mentre prima era previsto il 15% in modo da evitare che il finanziamento copra giornali privi di mercato come accadeva prima, se non sbaglio denunciato da una puntata di Report qualche anno fa, e le vendite devono essere certificabili tramite tracciabilità dei codici a barre. Inoltre nelle redazioni devono lavorare almeno 5 dipendenti a tempo indeterminato, regola per impedire o disincentivare lo sfruttamento.

Nel caso di cooperative esse devono essere composte in maggioranza da giornalisti con contratti a tempo indeterminato, per evitare le truffe molto diffuse anche in campo non editoriale, dove essere soci di una cooperativa è solo un modo per coprire sfruttamento e lavoro sottopagato, similmente alle “false partite IVA”.

I contributi diretti ad una testata non possono superare un massimo di 3.500.000€ complessivi , di cui un massimo di 2.500.000€ da calcolarsi sul costo dei dipendenti, della carta, ecc… e il restante sulle singole copie vendute (fino a 0,25€ per copia). Il totale stanziato per questi contributi negli anni si è progressivamente ridotto, il Governo Monti ha stanziato un massimo di 96.000.000€, meno ancora dei 120.000.000€ disposti dall’ultima modifica prevista dal governo Berlusconi.

Secondo i dati pubblicati dal Ministero per il 2011, ben prima dell’intervento Monti (che ricordo ha stretto i criteri e diminuito lo stanziamento) i contributi diretti venivano erogati a (tra parentesi quelli che ricevono maggiori contributi, non meno di 200.000€, non più di 4,5milioni per l’anno 2011):

1 – Contributi per quotidiani editi da cooperative di giornalisti (Il Foglio e Il Manifesto, per esempio)
2 – Contributi per quotidiani editi da imprese editrici la cui maggioranza del capitale sia detenuta da cooperative, fondazioni o enti morali (Avvenire, per esempio)
3 – Contributi per quotidiani italiani editi e diffusi all’estero (Il Globo)
4 – Contributi per quotidiani editi in lingua francese, ladina, slovena e tedesca nelle regioni autonome valle d’aosta, friuli-venezia giulia e trentino-alto adige (Dolomiten)
5 – Contributi per periodici editi da cooperative di giornalisti
6 – Contributi ex art. 3, comma 3, d.p.r. 25 novembre 2010, n.223 – d.p.c.m. 23 maggio 2011 (L’Unità, Europa, La Padania, il Secolo d’Italia)
7 – Contributi alle imprese editrici di periodici che risultino esercitate da cooperative, fondazioni o enti morali ovvero da società la maggioranza del capitale sociale delle quali sia detenuta da cooperative, fondazioni o enti morali, che non abbiano scopo di lucro (Famiglia Cristiana)

Questa contribuzione, facendo i debiti calcoli ci è costata mediamente 5€ all’anno a testa, una margherita da asporto a testa, un prezzo modico per garantire un pluralismo di tipo europeo. Quando il Ministero pubblicherà i dati relativi al 2012 e sopratutto al 2013 vedremo come le ultime disposizioni di Berlusconi e Monti avranno inciso sull’elenco precedente, e quante di quelle testate continueranno a lavorare nonostante l’assenza di contributi (dovuta ai criteri più stringenti).

Spicca però subito all’occhio scorrendo le liste che alcuni quotidiani nazionali particolarmente famosi non prendano contributi pubblici diretti fin da almeno il 2011, e sono il Corriere della Sera, la Repubblica, la Stampa, il Giornale, Libero e molti altri, esattamente come il Fatto Quotidiano.

Parlando invece dei contributi indiretti, fino a prima dell’intervento del Governo Berlusconi contenevano un contributo postale, terminato il 31 Marzo 2010, a cui si poteva accedere facendo richiesta, in pratica per ogni copia spedita parte del costo della spedizione veniva sostenuto dal giornale, e una parte veniva erogato dallo Stato, ogni giorno per ogni copia spedita, Il Fatto Quotidiano per esempio, testata che si vanta di non ricevere contributi, ne faceva uso. Oggi permane soprattutto la riduzione dell’IVA al 4% per le versioni cartacee (la stessa utilizzata per i libri), non c’è una lista ufficiale, ma si può presumere che vengano erogati a tutti, visto che l’unico giornale che fa una battaglia ideologica contro il finanziamento pubblico ai giornali finché ha avuto la possibilità di accedere alle agevolazioni postali lo ha fatto, in silenzio, senza specificarlo ai suoi lettori.

Volendo, per chi fosse interessato a tentare un calcolo qualitativo dei contributi indiretti, potete trovate qui i dati di vendita delle copie cartacee dei vari quotidiani relativa al mese di febbraio 2013.

Quello che preme a me è indicare il dato delle vendite in generale, in relazione ai contributi, come abbiamo visto il Corriere non riceve contribuiti (almeno) dal 2011, e ha una vendita media di più di 400.000 copie su 500.000 stampate (rapporto 4/5), il Giornale (che è nelle stesse condizioni) vende 120.000 copie su 200.000 (rapporto 3/5) e il Fatto Quotidiano vende mediamente 50.000 copie su 100.000 stampate (con un rapporto peggiore, 1/2). Infine possiamo prendere in esame un giornale finanziato almeno fino al 2011 (poi si dovrebbe controllare l’effetto delle nuove norme), L’Unità ne vende 30.000 su 70.000 (rapporto 3/7). Qualche giornale dovrebbe rivedere parte della politica di diffusione e stampaggio, ma per il resto direi che siamo in linea con il principio di pluralismo.

In ogni caso, per ogni ridimensionamento (quando non della chiusura) di una qualsiasi attività produttiva, vanno messe in conto tutte le ricadute economiche che la collettività si troverebbe a pagare, dagli ammortizzatori sociali, alle minori entrate per lo Stato fino alla diminuzione del giro d’affari per l’indotto. Non che il contributo sia da mantenere per questo, ma quando si parla di abolire contributi, incentivi, sgravi o qualsiasi altra cosa, val sempre bene ricordare che bisogna fare un discorso legato ai pro e contro anche economici e non solo di principio.

Quanto invece ai princìpi, come abbiamo visto, i grandi giornali, quelli che generalmente vengono attribuiti ai cosiddetti “poteri forti”, non ricevono già contribuiti diretti. Se guardiamo le sentenze della Corte Costituzionale citate precedentemente, abolire oggi il finanziamento pubblico sarebbe una follia, perché proprio in questo momento, molto più di quanto faceva fino a qualche anno fa, garantisce il pluralismo come da dettato costituzionale.

Rimane il fatto che i contributi indiretti continuano ad essere piuttosto oscuri nelle cifre, e che nel nome della trasparenza si dovrebbe trovare un modo più giusto per erogarli, inoltre il sistema finora ha avuto strette nei criteri d’erogazione e nel totale dello stanziamento solo ed esclusivamente con un occhio sui vincoli di bilancio, e su una materia così delicata dovrebbero essere ben altre le questioni cui fare riferimento. Da più parti, con cognizione di causa, si parla di una riforma complessiva del sistema di contribuzione, all’Europea, con un’attenzione non indifferente ai nuovi media e alle nuove forme di divulgazione dell’informazione.

Invece è purtroppo di questi giorni la notizia che il M5S ha presentato un DDL che elimina definitivamente il finanziamento pubblico, senza suggerire nessun altra forma di sostegno a questo settore strategico e fondamentale per caratterizzare l’Italia come una Democrazia compiuta, come da dettato Costituzionale, Diritto Internazionale e varie e circonstanziate sentenze della Corte Costituzionale. Un provvedimento che a mio avviso potrebbe tranquillamente essere considerato, nel remoto caso in cui fosse approvato, incostituzionale e facilmente impugnabile, nel caso passasse al vaglio della Presidenza della Repubblica, presso la Corte Costituzionale.

Infine un appello, dato che il Fatto Quotidiano è schierato apertamente contro i contribuiti pubblici, e se ne fa un vanto, potrebbe estrapolare dal proprio bilancio in autonomia se e quanto incassano direttamente o indirettamente dai contribuiti indiretti, come l’IVA agevolata, ecc…? Per chi gioca tutto sulla trasparenza dovrebbe essere un atto dovuto.

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