Chi entra è perso e chi esce è nato

L’estate scorsa dopo molti anni sono finalmente riuscito a prendermi una vacanza di quelle che durano quanto duravano ai tempi della scuola, quando il rientro era stabilito dalla voglia, dai compiti, dagli amici con i quali reincontrarsi e scambiarsi storie di flirt inesistenti ma raccontati con il suono del romanzo.
Ricordo che un’estate di tanti anni fa, avevo forse undici o dodici anni, per non sfigurare con i compagni già maschi tra i quali il mio sviluppo tardivo mi collocava anomalo quanto un bambino dell’asilo in un battaglione di mercenari, arrivai persino a inventarmi di sana pianta una storia estiva raccontabile.
Fui meticoloso, la ragazza era straniera così da risolvere il rischio delle domande su quando l’avrei reincontrata, ricordo ancora il nome che inventai, Sophie Beltrand, era l’estate di Plastic e il nome mi sembrava suonare bene.
Era francese Sophie, scrissi persino le lettere che mi mandò una volta tornata a casa, fu una storia d’amore meravigliosa e gli amici me la invidiarono molto.
Amici, sono passati venticinque anni e mi sembra giunto il momento di dire la verità: Sophie non è mai esistita, se non nella mia mente, dove però mi piace ricordarla come una delle storie d’amore più belle che abbia mai vissuto.
Del resto l’avevo inventata, non poteva che essere la sintesi dei sogni migliori, la donna che a dodici anni sogni e per i restanti insegui invano cercando lungo la strada compromessi con quel punto di partenza inarrivabile.

L’estate scorsa dopo molti anni ho di nuovo avuto tempo, tanto tempo per leggere, dieci libri in un mese, più di quanti ne abbia letti negli ultimi tre anni, una bulimìa da senso di colpa non verso Sophie ma verso l’uomo che le promisi avrebbe trovato se un giorno l’avessi davvero incontrata.
L’estate scorsa mi sono dato ai classici, tutti quei libri imposti negli anni della scuola, gli anni di Sophie, che però in quegli anni non puoi capire, non puoi apprezzare, non puoi interiorizzare.
L’estate scorsa decisi di riprenderli e ripartire da lì, da Sophie, e così sono andato in libreria a comprare Il vecchio e il Mare, 1984, I ragazzi della Via Pàl, Il sergente nella neve, Il giovane Holden, Il grande Gatsby, l’estate scorsa mi sono rimesso a fare i compiti delle vacanze attraversando di nuovo i libri che furono compiti delle vacanze in un’età nella quale non lo puoi capire 1984, non lo puoi capire Il vecchio e il mare, non lo puoi capire I ragazzi della Via Pàl, non lo puoi capire Sappiano le mie parole di sangue di Babsi Jones (ok questo è più recente e quindi è una licenza temporale ma sta lì perché chiunque voglia ascoltare la Guerra dei balcani raccontata con la voce dei cattivi non può farselo mancare) se non hai letto Il vecchio e il mare.
Se non hai letto Domenico Quirico.

L’estate scorsa la maratona di otto ore consecutive di meravigliosamente solitaria spiaggia non iniziava con il libro né con il tuffo, iniziava con i reportage dalla Siria di Domenico Quirico, unica deroga concessa a quella volontà di staccarmi per un mese dal tempo contemporaneo, quel presente che decisi di parcheggiare per riaffrontarlo non prima di aver fatto miei i codici per decifrarlo che nessuno meglio di Nemecsek avrebbe potuto darmi.
Prima il caffè, poi l’edicola per comprare La Stampa e sperare che Domenico Quirico avesse mandato altri pensieri, altri scritti, altra letteratura e dopo, solo dopo, i libri del tempo di ieri.
Io la Siria l’ho vista attraverso gli occhi di un uomo che oggi non si sa dove sia, occhi che dovunque siano stanno parlando all’intimo dell’uomo che guarda con parole che forse mai potranno essere scritte con la potenza che certamente stanno avendo.
Domenico Quirico, se è vivo e quanto vorrei esser certo che lo sia, in questo momento sta scrivendo con gli occhi i pezzi più potenti della sua storia e li sta scrivendo per l’unico lettore in grado di ascoltarli per quelli che sono: sé stesso, un dialogo nel quale comunque andrà questa storia nessuno potrà mai entrare nella stessa maniera in cui il suo essere narratore coincide con il suo essere ascoltatore.

Qualcuno, i pochi arrivati fin qui, si starà chiedendo perché mai su questo blog io abbia deciso di parlare di Domenico Quirico.
Qui si parla del M5S, di Grillo, li si sfotte, li si ridicolizza, qui si parla di loro.
Domenico Quirico è anche storia loro, o meglio sarebbe storia loro, quella che loro vorrebbero essere quando banalizzano i Servizi segreti riducendoli a una pagina FB sulla quale se fossero gestiti da loro pubblicherebbero tutto per mantenere la promessa fatta a ragazzini che avevano ancora l’orario di rientro la sera quando gente molto grande decapitava ostaggi in tv e oggi non lo fanno più perché uomini molto poco mediatici ma di valore umano inarrivabile hanno trovato il modo di occuparsi del e risolvere il problema, senza fare rumore, senza chiamare le telecamere, senza chiedere medaglie.
Perché se Domenico Quirico un giorno tornerà a casa dalla sua famiglia lo dovrà a uomini che in silenzio stanno lavorando perché lui torni dalla sua famiglia.
Uomini che non vanno in tv, che non hanno mai meriti, che spesso muoiono per riportare alla loro famiglia persone con le quali nella vita privata forse non condividerebbero nemmeno un caffé.
Uomini che di mestiere incontrano sequestratori, mercanti d’armi, che passano anni ad imparare non la formula del microchip nel cervello o della palla per lavare senza onde radio di antenne occupate tra la merenda e la pomiciata, ma a imparare in silenzio lingue sconosciute che in certe terre fanno la differenza tra la vita e la morte, uomini e donne che nel silenzio della fama dormono dentro tende sotto la minaccia di fucili e fanno viaggi di giorni e giorni solo per ricevere una prova di vita dell’ostaggio, senza nemmeno la certezza di restare vivi abbastanza da portarla a chi dovrà decidere come procedere.
La politica non è un video su Youtube, non è un pezzo comico su un blog.
Mentre noi piccoli uomini viviamo la politica calandola dentro le nostre piccole vite ridotta a un numero di pixel sufficiente per farla stare dentro il display del telefono, negli stessi istanti ci sono uomini che scendono da aerei senza numero di registrazione atterrati su piste di terra battuta nel centro di mondi senza legge e senza princìpi, consapevoli che nella migliore delle ipotesi risaliranno su quello stesso aereo con un orecchio in una scatola, nella peggiore non risaliranno mai su quell’aereo, uomini pronti a scambiare le loro vite con quelle di uomini che hanno deciso di fare della propria vita una pagina che forse nemmeno verrà letta, uomini che hanno trovato il modo di inventare la macchina del tempo.

Perché la scrittura è questo, nient’altro che una meravigliosa macchina del tempo.
Prova solo a pensarci, io adesso sto scrivendo, se guardo fuori dalla mia finestra le stelle cadono perché è la notte di san Lorenzo e il silenzio è tale che il rumore dei tasti mi pare molesto per i vicini; nello stesso momento tu adesso stai leggendo, se guardi fuori dalla tua finestra è giorno e il rumore delle macchine ti sta obbligando ad alzare la radio, eppure se io dico “Adesso è notte” e tu dici “Adesso è giorno” stiamo entrambi dicendo la verità, potenza della scrittura.
Scrivere è viaggiare nel tempo, è piegare il tempo, si può fare, lo stiamo facendo.

L’estate scorsa Domenico Quirico mi parlava della Siria con voce di scrittore, non di giornalista.
Non faceva cronaca, non scriveva reportage, faceva letteratura.
E facendo letteratura fermava il tempo, poteva dire “Adesso scrivo” e noi oggi possiamo dire “Adesso leggiamo” e stiamo dicendo entrambi la verità.
Per questo scrivo questo post, per parlare di verità, perché Domenico Quirico l’estate scorsa ha fermato il tempo così che oggi, un anno esatto dopo, ciascuno di voi potesse leggere il tempo congelato di quei giorni e se non avete avuto la fortuna di passare l’estate che ho passato io, quella scorsa e quella degli anni in cui ho avuto una storia con Sophie Beltrand, la macchina del tempo ve la porto io così che sappiate che in questo momento, mentre noi diciamo “Adesso rispondo io al grillino”, in qualche buco di culo di mondo c’è un uomo che sta pensando “Adesso muoio” e l’ironia della vita è che stiamo entrambi facendo letteratura sui nostri prossimi piccoli minuti di esistenza.

Le parole che seguono sono la Siria raccontata da Domenico Quirico quando era libero e servono a spiegare perché se un uomo così non tornerà dalla sua famiglia, la vita di ciascuno di noi sarà da quel giorno un pochino più piccola.
Non lo so quanti di voi sono riuscito a portare davvero fin qui, forse uno o due, ma qualcunque sia il numero se sei tra quei due e hai quindi già perso una ventina di minuti a seguire questo piccolo stupido che sono io, fai l’ultimo sforzo e regalati il piacere di scoprire chi è quell’uomo che se tornerà a casa sarà solo grazie al fatto che di questioni così grandi per nostra fortuna se ne occupano ancora, per adesso l’abbiamo scampata, uomini grandi in maniera inversamente proporzionale al rumore che fanno quando si muovono.

Questo è Domenico Quirico:

Tutti sono stati plasmati dal conflitto e dal suo trauma; consciamente o inconsciamente si sono rimodellati, assumono un atteggiamento, indossano una, maschera, si lasciano compenetrare profondamente da quella esperienza e ne escono riconfigurati. Ma prima come erano? Che cosa era Saleh prima di vendere l’automobile per potersi comprare un mitra e combattere? Si sentiva un uomo come ora che lo mostra orgoglioso come se fosse un figlio? E cosa era Mudar che ti insegue, umilmente petulante, per mostrarti come prova del suo coraggio, della sua nuova identità, un video sul telefonino? E si vedono sequenze di battaglia, blindati che manovrano sotto il fuoco dei lanciarazzi e poi cadaveri di soldati a terra, tutti curiosamente senza scarpe («faceva un caldo tremendo, se l’erano tolte sui pick-up e quando li abbiamo attaccati non hanno avuto il tempo…»)? La voce che grida ossessivamente nel sonoro, roca e spezzata dalla corsa e dalla emozione “Dio è grande” è la sua. E forse erano così, un tempo, gli eroi di Omero nella pianura di Ilio: mostravano lo scudo pieno di ammaccature e ognuna era una vittoria. E cosa era Nour che non vede i suoi due figli da tre mesi, sono in Turchia, e spiega che li ha lasciati lì per essere più libero quando combatte? Aveva allora questo padre affettuoso lo stesso piglio di ardito e spicciativo furfante? E il padre di Mansour detto «la tigre» perché era forte come un toro e ora non c’è più, martire, ma dopo aver liberato questa zona, e quella di Nayan, dai soldati di Bashar? Che cosa era prima di ribellarsi, ai tempi del dittatore padre, aveva la stessa aria dolce e risoluta nel suo barracano nero, nonostante quel figlio perduto? E questo ragazzo che racconta il massacro di cinque paesani, tre fratelli e due dei loro figli, erano commercianti, senza legami con la rivoluzione, li avevano fermati gli uomini dei servizi alla barriera di Elamun all’ingresso di Aleppo, di qui sono 30 chilometri; li hanno ritrovati ieri mattina, quei malavventurati in campagna, nella loro auto, le mani legate dietro la schiena, orrendamente torturati e mutilati. Avrebbe avuto 500 giorni fa prima che la rivoluzione scoppiasse la stessa quieta risolutezza nel mostrarti, anche lui, un video che ha girato sul telefonino, tremendo, volti irriconoscibili per i colpi, mani tagliate: quando l’odio diventa delirio? «Erano di una grande famiglia, gli Oso, qui della zona, che ha ragazzi nella rivolta..»: avrebbe avuto questo coraggio, prima dell’erta di quei 500 giorni? Poi uno dei ragazzi della Armata Siriana libera che mi scortano ha detto una cosa: «Tu forse non puoi capire tutto perché non sei vissuto qui negli ultimi quaranta anni: nemmeno in casa, nemmeno quando eri solo con i figli o con tuo padre, avevi il coraggio di parlare liberamente, ti guardavi attorno sussurravi. Potevi bestemmiare il tuo dio, senza danni, quanto volevi; ma se pronunciavi il nome Assad eri morto». Le stesse parole me l’ha dette un uomo della rivoluzione libica a Bengasi meno di un anno fa quando Gheddafi era già caduto: ecco, la paura. Riassume il passato della gente che ha combattuto e combatte la rivoluzione araba. Si sono trascinati dietro la paura come qualcosa di sporco attaccato alle scarpe, giovani vecchi, uomini donne, risoluti e tentennanti. Per generazioni. Si battono per scuotersela di dosso e per sempre. Hanno esitato prima di gettarsi nella rivoluzione come in un fiume per lavarsi del passato. Avevano paura, lo ammettono, non del figlio Bashar, erano le vecchie croste della paura del padre. Aveva ucciso senza muovere un muscolo del viso quarantamila persone che si erano ribellate. Come ora. In questi mesi mi era parso inspiegabile che gli uomini del regime si accanissero contro i bambini, torturandoli, uccidendoli: «Era un modo per ricordarci che non hanno limiti in quello che possono fare, per ridare forza a quella paura». Avevano paura dei diciassette servizi di sicurezza, tutti indipendenti l’uno dall’altro, tutti rapaci e malefiziosi, tutti onnipotenti e «ognuno dei suoi capi è come un altro piccolo Assad…». Fino a ieri ripetevano un proverbio che mi sembrava misterioso, senza senso: «chi entra è perso e chi esce è nato». E parlava di coloro che arrestati venivano portati nella prigione di Palmira, nel deserto. Lì sparivano, inghiottiti nel nulla; neppure i cadaveri restituivano ai parenti. Anzi: per punizione venivano tolte loro case e proprietà. Per tutto questo, nella regione di Aleppo, qui nel nord, quando quasi a sorpresa la rivoluzione è scoppiata, è rimasta apparentemente tranquilla, indifferente. In realtà si preparava. Tutti hanno un fucile in casa: perché se non lo possiedi non sei un uomo, non puoi difenderti, altre armi sono arrivate attraverso il confine turco. E ora vaste zone come quella in cui ci troviamo e città e villaggi sono libere, si amministrano affidate ai notabili o a qualche imam venerato. Per arrivarci il viaggio è breve nello spazio ma lungo, interminabile nelle vibrazioni dell’anima e della Storia. Al di qua della frontiera la Turchia è la luce, energica arrogante aggressiva narcisista come questo Paese che sprizza orgoglio e desiderio quasi dalla terra, che vuole espandersi, far da modello e comandare. Eppure al di qua del confine si spengono subito alcune certezze nel sanguinoso imbroglio siriano. Che la Turchia sia a fianco dei ribelli, li addestri, li aiuti, li armi. I generali gli ufficiali e i soldati turchi che hanno disertato e si sono rifugiati oltre confine sono in pratica prigionieri nei campi, controllati a vista: niente armi, nessun istruttore. Ankara, ossessionata dal problema dei curdi, è larga di parole ma avara di fatti, modellerà su questo la sua azione. E poi altre delusioni: «Agli americani -mi racconta un ufficiale disertore- abbiamo chiesto gli Stinger, ci servono contro gli aerei e gli elicotteri. Ora cerchiamo di abbatterli tirando con le mitragliatrici verso l’alto, sdraiati con la schiena per terra. Li hanno dati ai libici, lo scorso anno. A noi hanno risposto no: dicono che temono di perderli, che finiscano in mano ignote. Già ma di quelli dati ai libici che cosa sanno?». Al di la della frontiera chiusa da giorni la Siria è il buio. L’attesa a Kailis per attraversare è lunga in uno spiazzo accanto allo stazzo di un gregge di pecore, l’odore acuto che arriva a zaffate. Uomini giovani sorgono continuamente dall’ombra, sono disertori che hanno deciso di raggiungere l’armata degli insorti. Fioriscono nel marcio della guerre come fiori velenosi i «passeur»: contrabbandieri di roba di armi di uomini, sono un po’ turchi un po’ siriani, gente di confine, si offrono, assicurano che i soldi sono per aiutate la rivoluzione. Chissà. A fari spenti un’auto ci porta in mezzo alla campagna, il buio dapprima lascia intravedere disordinate forme inorganiche. E’ la città che si sfilaccia nella notte segnando la fine dei quartieri poveri e l’inizio dei campi con lunghe file di ulivi che presidiano il niente. La luce della luna crescente del ramadan svela la trama di un sentiero che si allunga come una biscia in mezzo all’erba secca. «Mai lasciare il sentiero, ci sono le mine qui». Arriviamo ai reticolati, si scivola sotto strisciando. E improvvisi dal buio, immobili, su due sedia di plastica bianca i primi soldati dell’armata siriana libera. Il loro campo è tra gli ulivi, attorno al fuoco fumano pigri il narghilé. Sono giovani, pieni di vita, si sentono per la prima volta onnipotenti, quest’idea di non aver più paura gli mette nel petto un solletico voluttuoso. Hanno voglia di ridere, di gridare, di battersi. Senti subito che una conclusione ci sarà. L’aria prende consistenza e pare vibrare come un velo diafano sbattuto da un insensibile vento. Raggiungiamo il villaggio, è notte ma lunghe file di uomini e donne sostano in attesa, manca il pane; ci ospitano in una casa requisita a un ricco proprietario dalla rivoluzione. L’acqua della piscina ora serve a irrigare i campi e dissetare i montoni. Il cannone sbatteva l’aria a occidente là dove c’è Aleppo. Sono giorni foschi e grandi. La battaglia che deciderà la rivoluzione e’ iniziata.

Dedicato a mio padre.
Dovunque sia e in qualsiasi modo abbia deciso di spendere la sua vita, che a occhio e croce non può che esser stata un eterno dubbio tra il salvare qualcuno o l’ucciderlo.
Se è vivo, qualsiasi cosa fosse contenuta nella scatola che ci è stata recapitata e che abbiamo seppellito prima di trovare il coraggio di aprirla, sappia che io spero la prima ma sono ragionevolmente certo della seconda.
Ma ugualmente adesso, come ieri, come la macchina del tempo, mi manca come solo un padre può mancare a un figlio diventato adulto.
Come quei libri che hai letto quando eri piccolo, ma che puoi capire solo quando con la vita ti ci sei scontrato almeno un po’.

Spero che Domenico Quirico torni dalle sue figlie.

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