Brexit: cosa succede ora?

Eccoci qui a parlare di brexit.

Possiamo dire che ci sono due livelli di discussione: sociale ed economico. Certamente intrecciati – non potrebbe essere altrimenti – sono però due livelli che bisogna analizzare (sfortunatamente non a livello approfondito) separatamente.

Il mercato comune e la moneta Euro sono stati adottati per semplificare gli scambi commerciali all’interno del mercato europeo. Banale. E’ stata una questione puramente razionale-economica: meno tasse sui beni/servizi, maggiori vantaggi per i consumatori. Questo a prescindere dal fatto che una nazione – all’interno del mercato comune europeo – possa avere come moneta l’Euro o meno. Detto questo, e detto che la materia macroeconomica non è una scienza esatta, si può comunque cercare di capire tendenze ed evoluzioni che una scelta di politica economica può (potrebbe) causare.

Secondo FMI e OCSE una Brexit porterebbe a questi scenari. Schematizzo.

– Aumento del costo di finanziamento dovuto all’incertezza del futuro. Non si sa quali saranno i termini di rinegoziazione degli scambi commerciali.

– Difficoltà di finanziare politiche di deficit per il deflusso di capitale fuori dalla UK. Meno capitali da tassare meno soldi per le politiche sociali e di rilancio economico.

– Passaggio da una regolamentazione favorevole per il mercato unico europeo verso la regolamentazione standard del WTO. Più o meno metà del commercio UK è da e verso la UE. In altre parole: aumento della tassazione sui prodotti e servizi che si rifletteranno su un aumento del prezzo finale al consumatore.

– Disincentivazione del lavoratore europeo verso il mercato UK. Questo, certo, è voluto da una parte — la parte brexit — dei lavoratori ma che produce – a lungo andare – una minore competitività della produzione e degli investimenti. Chi lavora di più o ha più skill va dove viene pagato di più. E un mercato chiuso – soprattutto nel breve periodo – ha solo la svalutazione competitiva da “giocare”. Ma i costi della svalutazione si abbattono solo sul capitale variabile a reddito fisso: i lavoratori dipendenti.

– Apprezzamento dell’euro e di altre monete nei confronti della sterlina. Questo che potrebbe essere positivo per i prodotti esportati renderebbe di contro i competitor della UE più restii a concedere vantaggi sugli accordi commerciali in essere.

– La difficoltà di recuperare finanziamenti per la fuga di capitali e l’aumento di rischio produrrebbe nel lungo termine una diminuzione della ricerca e sviluppo e degli skill dei manager e lavoratori ad alto tasso professionale.

Questi sono ovviamente previsioni basate su modelli macroeconomici che si potranno avverare o meno, con più o meno intensità, ma alcuni fattori isolati sono sicuri. E parlo dell’aumento delle tariffe per gli scambi commerciali, tanto che si parla espressamente di brexit come di una “tassa”. Lo stesso per i disincentivi per i lavoratori più qualificati: quelli che sono costretti a migrare per motivi contrari alla propria volontà accettano quasi di tutto ma chi decide di spostarsi lo fa dove ritiene di avere meno problemi a livello sociale ed economico e più sicurezza e stabilità. L’unica cosa sicura in UK adesso è l’insicurezza. Nel prossimo futuro, che è quello che interessa al lavoratore qualificato, ancora di più.

Lo riporto ma è un numero che si basa su previsioni che tengono insieme molti fattori e che quindi è largamente discutibile. Per l’OCSE l’impatto sul PIL in UK sarà inferiore rispetto alla contrazione del PIL in EU e avrà questi valori indicativi.

GDP %

Near term: 2020                                              -3.3%

Longer term: 2030          central -5.1% / Optimistic -2.7% / Pessimistic -7-7%

Nel 1973 l’UK ha aderito al mercato comune diventando membro dell’UE. Sotto metto un grafico che mostra la ricchezza pro capite confrontata ad altre nazioni e federazioni di stati come gli USA di lingua inglese. Come si vede l’aspetto competitivo dell’inglese come lingua “universale” può essere un vantaggio culturale ma deve essere accompagnato da misure economiche per dispiegarsi al meglio.

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Due parole sui negoziati e sulle tempistiche.

Per quanto riguarda i negoziati sulle regole, anche se l’uscita ufficiale prevede un lasso di tempo di due anni, gli scambi commerciali vivono di “vita propria”. I negoziati UE UK possono dar vita ad un accordo nuovo oppure seguire tariffe e regole sulla base di un accordo già esistente preso a modello. Come accordo standard — qualora non se ne trovi uno — viene recepito quello che viene definito “Most Favoured Nation”, che sarebbe quello del WTO.

Esempi di accordi commerciali sono:

European Economic Area (EEA) : UE – Islanda, Norvegia e Liechtenstein
European Free Trade Association (EFTA) : UE – Svizzera
Customs union : UE – Turchia
World Trade Organization : UE – Altre nazioni

Sulla tempistica non sono presenti — come ovvio che sia — precedenti a cui ispirarsi ma si possono valutare i negoziati precedenti per valutare che effettivamente tali accordi non si risolvono in fretta e che probabilmente risentono anche di valutazioni politiche che nulla hanno a che fare con l’economia (pensiamo alle scadenze elettorali dei vari stati Europei in concomitanza dei negoziati commerciali dopo il brexit).

 

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Una cosa va detta sulla propaganda del fronte opposto — soprattutto sull’aspetto dell’immigrazione — e cioè che, non solo si devono spiegare le ragioni opposte ai vari populismi europei ma lo si deve fare bene e correttamente. Come piccolo esempio mi viene in mente quando — dopo aver ricevuto il classico attacco dei populisti sugli “stranieri che rubano il lavoro” — il rappresentante moderato risponde che i migranti fanno lavori che non vogliono fare più i “nativi”.

Questo, che può anche essere vero, non risponde appieno alla complessità delle cose e risponde ad una “semplicistica mezza verità” con un’altra. Non esisterebbe la struttura sociale così come la conosciamo senza la UE, l’euro e gli scambi commerciali. I 10 stranieri che lavorano in una ditta di 20 lavoratori dipendenti non ne stanno rubando 10 ma ne stanno facendo guadagnare 20 in generale. Le ditte che aprono e che assumono non lo farebbero o lo farebbero in modo diverso se tutto l’insieme di regole fosse diverso, se i potenziali consumatori fossero di meno, o ancora se i loro prodotti e servizi avessero un prezzo finale aumentato da ulteriori costi di commercializzazione.

Insomma, bisognerebbe cercare non solo di spiegare meglio le ragioni del progressismo europeo ma di studiarlo di più.

 

  • Articolo di Buddenbrook

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