60 milioni di disoccupati garantitissimi

Adoro il mio PC, l’ho costruito pezzo per pezzo scegliendo ogni componente e risparmiando euro dopo euro per poterci mettere quel particolare hard disk, quel certo monitor, quella specifica scheda video.
Il mio PC è mio.
Vedete, il concetto di proprietà è quello più usato ed abusato nella vita quotidiana e, nonostante questo, è contemporaneamente quello meno compreso dall’uomo della strada (nonché quello che meno viene considerato quando usato con un “non” prima).

Io ho qualcosa che è mio, qualcosa che al di fuori di particolarissimi casi (cioè la difesa e la sicurezza della comunità) posso usare come mi pare, qualcosa che è nella mia disponibilità.
La mia automobile, la mia casa, la mia pistola… cose “mie” che mantengo io, i cui costi di manutenzione ricadono su di me e che sta a me usare.

Se ho un negozio, un furgone per le consegne, una barca da pesca… queste cose sono mie: io ho pagato e pago per mantenerle, io ne sono proprietario ed io posso decidere (con evidenti limiti) come disporne per condurre la mia attività.
Anche i miei soldi sono miei. Ovviamente pago le tasse come fa (o dovrebbe fare) ogni cittadino, ma sono soldi miei ed ho il diritto di farne quello che voglio: donarli in beneficienza, investirli nelle mie attività, comprarmici una barca, fare un viaggio… è roba mia.

Dove voglio arrivare con questo discorso ?
Se io sono un imprenditore o se voglio diventarlo è una mia scelta, scelta che posso fare solo io e che devo sostenere da solo, coi miei mezzi, i miei soldi e le mie proprietà. Se va bene e guadagno va bene, se va male chiudo. E’una mia scelta.
Se decido d’aver bisogno di una persona che lavori per me ? Beh in quel caso l’assumo. Ora ho una persona che mi “vende” il suo tempo e la sua fatica in cambio di uno stipendio. In linea di principio è così.

Qui entra in gioco lo Stato. Lo Stato stabilisce specifici vincoli ed impone precise tutele sia per il lavoro (com’è ovvio che sia, per la salute mia, dell’ambiente e della popolazione) sia per chi dipende da me.
Ora, diciamolo chiaro e tondo, lo Stato italiano è universalmente noto per essere uno dei più rompiscatole in quest’ambito: richiede certificazioni, controlli, visure, tasse, dichiarazioni, tasse, controlli periodici, tasse… lo può fare e lo fa perché é lo Stato italiano e l’attività è ubicata in Italia, quindi se voglio poter lavorare ho bisogno del “permesso” dello Stato, permesso che lo Stato mi da solo a specifiche condizioni.

La decisione di rischiare, di metterci i soldi e di provare a guadagnare con un attività è mia, ma come vedete lo Stato ha diverse leve per costringermi a fare le cose “come vuole lui”.
Una di queste è appunto la serie di obblighi necessari per poter lavorare (il bastone) mentre l’altra è una serie di possibili incentivi (riduzione delle tasse, agevolazioni, finanziamenti) che mi vengono concessi se faccio “come dice lui” (la carota).
Io rischio, lo Stato “vigila” ed il mercato decide se la mia attività rende o meno. Chiaro ?

E se io domani volessi chiudere l’attività perché sono stufo ? E se domani volessi trasferire armi e bagagli (nonché capitali) all’estero e salutare l’Italia ?
Ovviamente (entro certi limiti e con specifici iter) posso farlo, sono cose mie ed è una mia scelta decidere se e come tirare avanti la mia attività. Ovvio che se mi sono impegnato formalmente a non chiudere e non delocalizzare (con appositi obblighi contrattuali, ad esempio in cambio di qualche “carota”) sono più limitato ma questo non cambia di molto il discorso di fondo. E qui casca l’asino.

Benvenuti gente, questa è l’Italia del 2014.

Eccoci qui. La situazione italiana la conosciamo tutti e non c’è bisogno di scendere nel dettaglio, sicuramente fra i commenti troverete almeno un paio di persone prontissime a dirvi quanto sta male oggi l’Italia… quel che conta è che per ora in Italia il problema non sono i capitali, sono gli imprenditori.
I soldi per fare impresa ci sono o si trovano (anche perché nonostante tutto il sistema creditizio esiste ancora, pur essendo anche questo abbastanza provato), il problema è che non c’è più nessuno disposto a farla. Sì, non sono stupido, so bene che in questa fase di contrazione non ha molto senso aprire un’attività (perché la gente non è propensa a spendere) però il discorso non si esaurisce lì.
Le cause della “crisi” imprenditoriale italiana sono di tanti tipi e fra esse le più discusse sono le tasse asfissianti, una burocrazia incredibile, la concorrenza sleale dovuta a mafie e corruzione ed una giustizia civile così lenta (specie se la controparte sa come rallentarla) e macchinosa da scoraggiare anche i più ardimentosi.
E così chi fa impresa è costretto a barcamenarsi fra tasse assurde per importi e modalità (uno spezzatino di bolli, imposte, pagamenti), una selva di permessi (certificazioni e nulla osta che spesso non tutelano e non attestano nulla: lasciti velenosi della volontà di normare “analmente” ogni ambito della vita pubblica), concorrenti sleali (che tanto non pagano le tasse, quindi possono permettersi di chiedere meno) o addirittura violenti (che minacciano te o la controparte) ed ovviamente un sistema legale che ci mette anni a deliberare qualcosa.

Fino a qui non mi pare di dire niente di nuovo. Sbaglio ?

Per cercare di rilanciare l’impresa in Italia (perché checché se ne dica è l’impresa a creare lavoro, a pagare gli stipendi ed a far girare l’economia… ed anche chi lavora nel pubblico deve il suo stipendio all’impresa privata) oggi, dopo anni d’immobilismo, si comincia a discutere seriamente di questi problemi.

Che s’è fatto finora ? Molto poco, per non dire nulla.
Le sinistre sono state troppo “ideologiche” con la loro visione “bucolica” dei mercati e del lavoro: con l’idea che bastasse un emendamento, un decreto o una nazionalizzazione (vedasi Ferrero, che voleva nazionalizzare l’Alcoa). L’idea che bastasse fare un concorso pubblico o stilare una graduatoria per produrre lavoro e reddito ha prodotto (ben prima della seconda repubblica) un sistema che ha fatto scempio del denaro pubblico assumendo e prepensionando, convinti che bastasse il “posto fisso”, magari statale o para-statale per tenere a galla la baracca.
Le destre sono state anche peggio, anziché tentare di rimettere in ordine il mercato del lavoro spesso e volentieri si sono limitate a difendere le rendite di posizione di manager ed aziende, bloccare qualsiasi possibile concorrenza (vedasi la storia del governatore Fazio e della difesa dell’italianità delle banche) e, davanti ad un mercato del lavoro ingessato, hanno dato il via ad una flessibilità chiamata “precarizzazione selvaggia” che ha diviso i lavoratori in due classi: quella dei più fortunati “lavoratori a tempo indeterminato” e quella dei “precari”, a cui non sono riconosciute tutele di sorta.
Ed eccoci qui, ci troviamo nella condizione di dover rimettere in piedi un sistema disastrato, e di doverlo fare nel modo più truce possibile: a viso aperto.

In questo frangente il problema più grosso è convincere la gente (italiani o stranieri) ad investire qui, a portare lavoro qui… in pratica a fare impresa in Italia. Abbiamo già subito la fuga di migliaia di piccole e medie imprese che, a causa dei motivi suddetti, hanno chiuso per riaprire altrove, in paesi dove gli stipendi sono più bassi, le tasse meno gravose, la burocrazia meno oppressiva ed il mercato del lavoro più aperto.

Già, il mercato del lavoro…
Molti in questi giorni attaccano il governo per la decisione di voler agire su di esso limitando i diritti dei lavoratori… la verità molto più semplice (e più brutta) è che i lavoratori di diritti praticamente non ne hanno, la buona parte di essi non può permettersi una gravidanza per non restare disoccupata o anche solo di stare a casa in caso di malattia.
I lavoratori precari hanno ben poche tutele (ne hanno qualcuna ?) e vengono trattati come dei paria dai lavoratori a tempo indeterminato che in queste ore lo stanno involontariamente dimostrando lanciandosi in uscite come “vogliono farci diventare tutti precari”.
Qual’è il punto, il punto è che l’apertura alla flessibilità “di destra” ha creato una categoria di lavoratori a zero tutele che a poco a poco sta sostituendo quelli a tempo indeterminato (che, a loro volta, difendono ostinatamente i loro diritti).

E andiamo al punto…
In discussione in queste ore c’è il famigerato “jobs act”, una riforma delle regole sul lavoro che tocca anche il contratto unitario, mettendo in discussione anche un punto che oramai è una specie d’istituzione: l’articolo 18.
L’articolo 18 si applica a tutte le società con almeno 15 dipendenti e norma un caso particolare, quello del licenziamento senza “giusta causa”. La cosa a cui i lavoratori tutelati non vogliono rinunciare è l’obbligo di reintegro che permette ad un dipendente licenziato di recuperare il suo posto di lavoro nel caso in cui il licenziamento sia riconducibile a ragioni non ritenute valide a norma di legge.
Quest’articolo è stato recentemente modificato dal governo Monti ma la nuova formulazione, molto rimaneggiata dai partiti, è risultata poco più che un papocchio e per di più un papocchio mal scritto col risultato che se in un tribunale l’80% delle cause si concludono col reintegro in un altro ad essere reintegrato è solo il 20% dei richiedenti, segno di un’eccessiva discrezionalità.

Il jobs act in discussione spinge per la creazione di un modello a tutele progressive che stando ai proponenti dovrebbe soppiantare quelli preesistenti: la cosa fa sicuramente piacere ai precari ma è vista come fumo negli occhi dagli altri lavoratori ed ai sindacati. Chi è “tutelato” dal contratto nazionale vede con orrore la possibilità di veder sparire una tutela così centrale e chiama in causa le associazioni di categoria che da sempre difendono i diritti dei lavoratori.

I suddetti sindacati devono buona parte della loro credibilità ai diritti che sono riusciti a conquistare e tutelare negli anni (articolo 18 in primis) per cui non hanno perso tempo e si sono mossi immediatamente contro il governo e le norme portate avanti dal governo arrivando a definire “tatcheriana” questa riforma; per loro si va oltre la mera difesa di un diritto: è una questione di prestigio.

Ad essere cattivi (ed io lo sono) ci sarebbe da chiedersi perché i sindacati sono così solerti a difendere i lavoratori che sono (o potrebbero diventare) loro tesserati mentre di tutti gli altri (in particolare dei precari) se ne sono sostanzialmente sempre fregati (o comunque sono stati disposti a lasciarli cuocere nel loro brodo senza opporre chissà quale resistenza in cambio di un piatto di lenticchie).

 

Inutile perdersi in giri di parole, il discorso è uno e semplice: noi italiani non siamo né i più belli né i più bravi né i più intelligenti fra gli abitanti di questo pianeta. Ci sono letteralmente miliardi di persone che possono fare gli stessi lavori che facciamo noi italiani, e meno il lavoro è specializzato più è facile trovare dei rimpiazzi.
La concorrenza con l’estero è fortissima, ancora di più considerando gli ostacoli tutti “italiani” di cui ho parlato sopra, ed a questi s’aggiunge l’ingessatissimo mercato del lavoro in cui le tutele sono sproporzionate rispetto a quelle dei paesi limitrofi (anche senza tirare in ballo le economie emergenti). La questione è ben nota all’estero, tant’è che ogni report economico non manca di citare fra le note negative questo aspetto: la rigidità del mercato del lavoro.
Con queste premesse è ovvio che chi non è obbligato a lavorare in Italia ne fa volentieri a meno e chi vorrebbe “entrare” in Italia cambia idea abbastanza in fretta.
Quanto si spera di poter mantenere in piedi l’Italia con un mercato in queste condizioni ? Tutti hanno acclamato Renzi (e Grillo) perché volevano le “riforme”, volevano il cambiamento dopo anni d’immobilismo… ma esattamente cosa speravano che fossero queste riforme ? Pensavano che si potesse “cambiare tutto” senza normalizzare il mercato del lavoro ?

E’ovvio che al licenziamento senza giusta causa deve corrispondere un indennizzo : chi viene licenziato dev’essere risarcito della perdita del lavoro e messo in condizione di poterne trovare un altro (ed è giusto che chi licenzi paghi per tutto questo) ma è irragionevole andare oltre.

Inoltre, ed è inutile nascondercelo, c’è un altro aspetto importante : l’Italia è un “sorvegliato speciale” dell’Unione Europea e più in generale dei mercati; l’articolo 18 in sé è una specie di simbolo: se non si riuscisse a mettervi mano in modo serio vorrebbe dire che il mercato del lavoro in Italia non è riformabile.

Tirando le somme se il modello a tutele crescenti venisse adottato in larga scala e soppiantasse i contratti atipici (è un bel “se”) sarebbe tanto di guadagnato per i precari e ben poco di perso per tutti gli altri, inoltre è indubbio che se vogliamo tornare competitivi qualcosa su quel versante dobbiamo farlo: gli stipendi non si possono toccare, le tasse sono quelle che sono, sulla burocrazia ci si sta lavorando, il malcostume “si fa quel che si può” ma almeno il mercato del lavoro vorremo svecchiarlo un po’ ?

Alla fine della giostra l’importante è semplicemente intraprendere quel percorso di riforme (anche impopolare) che nessuno ha mai osato iniziare e la cui mancanza sta riducendo l’Italia al collasso. Certo, è solo un primo, tutto sommato piccolo passo, e non è detto neanche che sia il miglior primo passo, ma è pur sempre meglio dell’immobilismo.
E poi c’è un ultima considerazione abbastanza importante: io da datore di lavoro voglio buttare fuori qualcuno dalla mia società avrò pure il diritto di farlo ? Pago eh, pago tutto ma se quello non ce lo voglio più (magari perché dopo un primo tempo diventa un peso morto, occupa un posto che vorrei dare ad un altro o semplicemente mi costa e non rende abbastanza) ce  l’avrò il diritto di liberarmene ? No, perché altrimenti chiudo e riapro dove non mi fanno storie… o magari, già che la congiuntura economica non è delle migliori, faccio prima: non apro neppure, tanto sono mezzi, soldi e rischi miei… e non mi può obbligare nessuno.

Pensateci, perché si rischia di diventare i sessanta milioni di disoccupati più tutelati del pianeta.

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ATTENZIONE: quanto segue non è dell’autore dell’articolo ma del sottoscritto (Arlequin) a cui ConteZero76 ha gentilmente concesso di fare una considerazione generale sui sindacati. grazie dell’ospitalità Conte

questa aggiunta non vuole essere un contro articolo ma solo una sorta di bilanciamento. Concordo con ConteZero76 su buona parte di quanto ha scritto, di critiche al sindacato e a chi ne difende le lotte in maniera aprioristica se ne possono fare tante; quello che vorrei evitare è che, nel criticare gli aspetti ritenuti sbagliati si finisca per condannare il sindacato tout court cosa che, sia chiaro, non credo Conte abbia fatto ma che percepisco in molti discorsi che si sentono fare.

L’idea del sindacato nasce dall’esigenza di unirsi per lottare alla pari con la controparte, nasce quando le parole “proletari” e “lotta” andavano intese in senso letterale. Certo di acqua sotto i ponti ne è passata, sono cambiati i problemi, la società, l’idea stessa di economia e spesso i sindacati non si sono evoluti di pari passo, ma cosa sarebbe, oggi, il lavoro in Italia senza i sindacati? Siamo sicuri che quei diritti che ormai consideriamo una forma ormai acquisita di civiltà continuerebbero ad essere comunemente accettati? Io qualche dubbio ce l’ho. Ci sono esempi famosi di noti marchi che spostano la produzione dove ancora a lavorare sono i minori ma che non si sognerebbero mai di chiedere che tale possibilità venga estesa ai paesi “civili” ma ci sono anche tanti esempi più piccoli, di realtà che possiamo toccare da vicino, piccole e grandi meschinità contro le quali è difficili battersi se si è da soli. Quante volte abbiamo sentito le frasi “I sindacati non fanno nulla”, “ma a che servono?”, “sono solo un carrozzone” e simili? Ecco, mi piacerebbe sapere quante di queste persone (se dipendenti), in momenti di necessità si sono rivolte ai sindacati, magari facendo per la prima volta la tessera, quante se si sono chieste se, senza sindacati, i licenziamenti sarebbero stati quindici invece di dieci, se la lettera di licenziamento per motivi personali alla fine l’avrebbero firmata, se il datore di lavoro anziché limitarsi ad una battutina sconveniente avrebbe provato ad allungare una mano. Non lo chiedo in maniera provocatoria, vorrei capire quanto le vittorie ottenute anche grazie ai sindacati sono sentite come diritti inalienabili e quanto come conquiste e lo vorrei capire perché non credo che siano inalienabili, se lo fossero non ci sarebbe stato bisogno di lotte per ottenerle.

Lo ammetto: mi spaventa la tendenza che tutti abbiamo a dividere il mondo in buoni e cattivi: lo facciamo per la politica (alzi la mano chi, qui nella stalla, non troverebbe il modo di criticare Grillo anche se dicesse “attenzione: l’acqua è bagnata, fate girare!”), per la propria squadra del cuore, per la religione, lo facciamo perché (entro certi limiti) è umano. Lo facciamo ma dobbiamo stare attenti perché, nella realtà c’è molto più grigio che bianco o nero e certi argomenti sono delicati e buttare pesi solo su un piatto della bilancia spesso non riporta equilibrio ma fa solo pendere il piatto dall’altra parte e quella del mondo del lavoro è una bilancia molto delicata. Mi spaventa, in definitiva un mondo del lavoro dove i dipendenti debbano lottare da soli contro chi è più forte.

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