Vladimiro 1

Premessa

Come assunto per un modello di conversione post comunista, ogni trasformazione riuscita ha presentato due stadi ben distinti, che possono essere riflessi in un sistema di “distruzione creativa”. Nella prima fase c’è stato un calo della produzione di beni che non avevano mercato, una conseguente diminuzione del potere d’acquisto, dei salari, e dell’occupazione. Il crollo del PIL reale, il declino della produttività del lavoro, il calo degli investimenti con l’aumento vertiginoso dei prezzi dei beni di consumo come segni tangibili dello sconvolgimento economico.

Nella seconda fase, dopo pochi anni dall’introduzione delle riforme, l’attività economica reale ha cominciato a risalire e la produttività a crescere per la riallocazione del settore pubblico in quello privato, mentre la disoccupazione ha continuato ad aumentare a causa della chiusura di attività improduttive, per stabilizzarsi su livelli elevati. In seguito anche la disoccupazione ha cominciato a scendere per merito di un nuovo dinamico settore privato e di una riconversione efficace di imprese statali. Queste fasi di transizione hanno effettivamente ben caratterizzato paesi dell’Europa orientale come Ungheria, Cecoslovacchia, Bulgaria e Polonia.

Anche la Russia ha cercato di seguire un percorso simile, tuttavia il suo passaggio dall’economia sovietica a quella di libero mercato, a causa della complessità russa e l’accesa resistenza riscontrata non ha precedenti storici. Nonostante il regime sovietico sia crollato pacificamente sotto il peso dell’inefficienza, dello spreco e delle contraddizioni interne, la sua eredità era così forte (data dalla lunga durata, dalla compattezza istituzionale e dal radicamento strutturale e psicologico nella società) che ha esercitato una notevole influenza ben oltre il suo disfacimento.

Al punto che alcuni economisti pensavano di dover smentire la teoria dei due stadi, poiché in confronto agli altri paesi post comunisti, in Russia i risultati furono molto meno soddisfacenti, soprattutto nel tenore di vita della popolazione e giunsero alla conclusione che la Russia, fino al 1998, nelle sue riforme avesse prodotto solo disastri. Fu quello l’anno in cui la sua economia toccò il fondo e cominciò una fase ascendente, anche grazie al deprezzamento del rublo, produzione e produttività aumentarono e il tenore di vita dei cittadini cominciò a migliorare.

 

I lavoratori

La classe dei lavoratori è la prima da prendere in considerazione, non solo perché ha sofferto maggiormente o perché in senso statistico è quella che ha relazionato la crisi con il numero dei suoi disoccupati, ma anche perché nella realtà russa ha continuato ad apparire come riferimento, e ha sempre rappresentato una media della società, ovvero la distribuzione delle opinioni e gli atteggiamenti del paese. Dal ’92 al ’97 gli occupati si sono ridotti del 64%, quindi la disoccupazione ha avuto un impatto fondamentale nelle relazioni industriali.

 

 

Il tasso di disoccupazione era senza dubbio maggiore di quello ufficiale perché non prendeva in considerazione i lavoratori a orario ridotto (5,8%), a settimana lavorativa ridotta o a congedo non retribuito (3,5%). Al di fuori di queste considerazioni, nel 1999 la disoccupazione raggiunse i 9 milioni di lavoratori.

Eppure a differenza delle altre repubbliche dell’area ex-sovietica, la Russia si è contraddistinta per un lento aumento della disoccupazione, con la caratteristica di aver sostituito i licenziamenti con la diminuzione dei salari, tanto che una stima del Ministero dell’Economia del 1997 contava 8 milioni di disoccupati e 12/13 milioni di lavoratori in esubero

Questo perché, erede della mentalità sovietica, i governanti russi continuarono ad acconsentire sussidi statali alle imprese, in quanto senza questi il dissesto economico fallimentare avrebbe potuto avere una portata talmente grande da produrre un’ondata catastrofica. In questa fase di sussidiarietà si pensava che i manager trovassero opportunità e reagissero, lo stesso i lavoratori avrebbero dovuto imparare a sopravvivere alle nuove condizioni, ma le sovvenzioni statali consentirono ai manager di evitare il licenziamento dei dipendenti, determinando una simbiosi fra loro che li portò alla sopravvivenza e al mantenimento delle retribuzioni.

Simbiosi che prese la forma di economia “informale” per poter accedere al mercato. In pratica un basso livello nell’osservanza delle leggi e un’alta fiducia nelle relazioni personali, creando dipendenza fra lavoratori e manager, entrambi uniti nel nascondere tali comportamenti alle autorità. In questa economia “informale” anche le modalità dei pagamenti cambiarono dalla moneta ai prodotti dell’azienda che il lavoratore poteva rivendere. Si stima che le retribuzioni “in natura” fossero arrivate al 24% e che avessero corrisposto ad un ulteriore diminuzione dei salari. D’altra parte anche i dipendenti approfittavano di questo tipo di rapporto per eseguire lavori personali all’interno della ditta che poi rivendevano per conto proprio con il beneplacito dell’azienda stessa.

 

Il modello di lavoro russo

I manager trovarono diverse soluzioni per far sopravvivere le aziende con varie forme di congelamenti dei salari, blocco degli aumenti in contesto di notevole crescente inflazione, tagli alle retribuzioni, ritardi nei pagamenti, riduzioni dell’orario, vacanze amministrative con stipendio minimo e congedi non pagati. La quota salari nel bilancio così diminuiva, potendo in questo modo mantenere i dipendenti in eccesso. La pratica di mantenere i lavoratori in eccedenza ha indubbiamente ostacolato il cambiamento dell’economia, contribuendo nel lungo periodo ad accrescere la delusione delle masse verso le riforme e la democrazia, d’altro canto ha anche allentato la tensione sociale che avrebbe potuto avere sviluppi imprevedibili.

 

 

Questo modello ha praticamente svolto il ruolo di ammortizzatore sociale e si è creato spontaneamente per effetto di singole decisioni dello Stato, degli imprenditori e dei lavoratori. Decisioni prese in modo indipendente l’una dall’altra che, se inizialmente potevano essere anomalie casuali, successivamente hanno trovato l’equilibrio per formare un modello di lavoro nel periodo di transizione. Ha avuto tuttavia un costo elevato impedendo lo sviluppo della produttività e della produzione con la relativa crescita economica perché come ai tempi dell’URSS si è sacrificata l’efficienza per la stabilità sociale e politica.

In un periodo di congiuntura favorevole, il modello del lavoro russo, formatosi nella prima fase della transizione e consolidatosi sotto il governo Putin, può portare ad un sensibile miglioramento del livello di vita dei lavoratori, ma essendo l’economia russa per la maggior parte dipendente dai mercati dell’energia e delle materie prime, in una fase di crisi mondiale come quella del 2008, che ha colpito duramente la Russia, sono state riattivate le forme di adattamento degli anni ’90 come la riduzione dei salari e i sussidi pubblici per le aziende che non licenziavano.

 

Le privatizzazioni

Già in una serie di leggi promulgate fra il 1987 e il 1991 (durante l’URSS) era stato tolto il monopolio statale del commercio estero e riconosciuta la nascita di piccole imprese, cooperative e joint-venture con imprenditori esteri. Quindi la privatizzazione era iniziata prima del crollo, malgrado fosse andata a vantaggio della nomenklatura. E proprio in questa fase cominciarono a formarsi i primi dirigenti, molti dei quali sarebbero diventati i capitani d’industria della nuova Russia. Contemporaneamente si sono create società miste con soci stranieri, le banche di Stato trasformate in banche commerciali e i ministeri settoriali in grandi gruppi industriali (Gazprom, Ferrovie russe, Airflot, Diamanti russi e altre) assieme a tutti i cambiamenti più importanti della trasformazione russa.

Tutto ciò naturalmente a porte chiuse, sotto il controllo dello Stato-partito e nei suoi esclusivi interessi, con notevoli privilegi per la nomenklatura. Inoltre fu proprio in questo periodo che tramite una strategia di asset-striping (inteso come spoliazione dei beni) i membri della nomenklatura economica e molti dirigenti delle imprese di Stato sono diventati proprietari di fatto delle rispettive aziende e attraverso una folta rete di società di intermediazione e l’immenso divario di prezzi esistenti fra Russia e Occidente si arricchirono a dismisura.

 

 

Di conseguenza per arginare lo strapotere dei dirigenti, le privatizzazioni dovevano accelerare e il diritto di proprietà doveva diventare legittimo. Il problema più consistente era che la massa dei lavoratori non possedeva soldi, quindi nel 1991 Gorbaciov varò una legge sulla privatizzazione della proprietà pubblica emettendo certificati azionari detti vouchers come simbolo del diritto di proprietà e i primi a godere dei vantaggi dei vouchers avrebbero dovuto essere i lavoratori membri dei collettivi delle imprese. Il concetto era che questi lavoratori sarebbero diventati proprietari delle loro aziende e dei macchinari contenuti.

I vouchers non erano nominativi e durante la successiva crisi che provocò l’inflazione galoppante persero molto del loro valore, unita alla scarsa chiarezza dei lavoratori sul loro significato, ne facilitò una rapida vendita, concentrandosi nelle mani degli amministratori delle aziende, di qualche burocrate e di individui intraprendenti che ne avevano intravisto la possibilità, fra cui i milionari del mercato nero dell’ex URSS, alti funzionari di partito, collaboratori dei servizi segreti e vari altri.

Il difetto più grande di una simile privatizzazione fu la limitatezza, la sua mancata diffusione sociale, la mancata nascita di un vasto numero di proprietari e di piccoli azionisti interessati a sostenere politici che curassero i loro interessi. Al contrario si avvantaggiò tutta la burocrazia sovietica diffondendo il malumore nella popolazione, la sensazione di essere stati ingannati, una disillusione diffusa e la tendenza a considerare dubbia la legittimità della proprietà, in particolare la grande proprietà. Nei fatti fu una radicale differenza con le privatizzazioni attuate nei paesi dell’Europa orientale.

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