TRAVAGLIO E IL PROFESSORE

DRAMATIS PERSONAE
Probabilmente pochi ne sono a conoscenza ma da oltre dieci anni è in corso una guerra senza esclusione di colpi tra il giornalista dalla schiena più dritta del mondo e un illustre Professore di diritto. Il giornalista in questione è talmente noto agli amici caproni e al grande pubblico che non vale neanche la pena presentarlo; diversamente è da dire per il Prof. Giovanni Fiandaca il cui nome, molto stimato tra i giuristi, è probabilmente sconosciuto ai più. In breve, il Prof. Fiandaca è uno dei più autorevoli docenti universitari di diritto penale, autore con il Prof. Musco di un celeberrimo manuale la cui lettura rappresenta una tappa obbligata per tutti coloro che vogliano tentare il concorso in magistratura e non è un caso se l’ex PM Ingroia ha sempre riconosciuto in Fiandaca il proprio maestro.

Perché allora, direte voi, Travaglio ce l’ha tanto col Professore? Anticipando la conclusione di questo intervento, dico che ciò è accaduto e accade perché la partigianeria travestita da imparzialità e obiettività si ritrova improvvisamente nuda di fronte alla conoscenza vera delle norme e a una lettura dei fatti che punta solo alla verità. Di fronte all’argomentare pacato e razionale del Professore la retorica d’assalto di Travaglio si rivela per quella che è: una furia manettara più che giustizialista (dove almeno nella radice c’è la parola “giustizia”) che si avvale di un armamentario dialettico che mira a suggestionare piuttosto che a informare e il cui unico scopo è di distruggere gli avversari.

La battaglia si svolge in due tempi, due momenti storici molto diversi tra loro, l’inizio degli anni 2000 e i primi anni del decennio in corso. Il primo round è infatti quello del caso Cocilovo, il secondo, sicuramente più conosciuto, è quello della cosiddetta trattativa Stato-mafia.

PRIMO ROUND: IL CASO COCILOVO
Cominciamo coi fatti nudi e crudi. Un imprenditore che secondo quanto si dice (come vedrete questa storia si basa molto sui “si dice” e sull’ “essere in odore”) ha fatto soldi a palate vincendo sistematicamente gli appalti pubblici nel messinese grazie ad amicizie e collusioni politiche – tale Domenico Mollica – un bel giorno (siamo nel 1995) racconta che sei anni prima (cioè nel 1989) durante un incontro con Luigi Cocilovo (allora sindacalista CISL) gli aveva consegnato una valigia con 350 milioni in contanti. Tale dazione sarebbe stata effettuata su precisa indicazione di Rino Nicolosi, importante politico DC e Presidente della Regione Siciliana, deceduto nel 1998. In particolare, il denaro avrebbe avuto lo scopo, da un lato, di remunerare l’interessamento del Nicolosi perché intervenisse presso gli Assessorati che si occupavano della programmazione delle opere pubbliche, dall’altro perché grazie a Cocilovo cessassero gli scioperi che avevano bloccato i cantieri delle ditte di Mollica.

Il rinvio a giudizio viene operato nel 2000 e il processo si svolge nel 2001, anno di entrata in vigore della riforma costituzionale del “giusto processo”. Siccome in sede dibattimentale (l’unica nella quale la prova si forma nel contraddittorio delle parti) il Mollica non parla e non ripete le accuse verbalizzate in sede di udienza preliminare, Cocilovo (accusato essenzialmente di essere il collettore della tangente) viene assolto “perché il fatto non sussiste”, mentre il Mollica viene condannato sulla base delle sue stesse dichiarazioni. Nondimeno nella sentenza i giudici ritengono di precisare che l’assoluzione si deve a meri motivi processuali: siccome con la riforma del “giusto processo” la prova a carico costituita dalla testimonianza del correo si forma solo nel dibattimento e questi (cioè il Mollica) ha deciso di tacere, i magistrati si vedono costretti ad assolvere pur essendo convinti che la dazione del denaro c’era effettivamente stata.
Il Cocilovo non ci sta, ritiene questa sentenza infamante della sua persona e la impugna in appello. La Corte d’Appello peraltro nel 2004 conferma il primo grado e la cosa processualmente finisce lì.

Intanto nel 2002 a Palermo c’erano le elezioni provinciali. Si fanno le primarie del centrosinistra e la gara è tra due candidati: Cocilovo, espressione dei partiti e il Prof. Fiandaca, candidato della “società civile”. Vince Cocilovo. E qui parte l’attacco micidiale di Travaglio:
se scopro che c’è un ex sindacalista che una sentenza di tribunale definisce «collettore di una tangente» (350 milioni più valigetta Cartier) «disposto anche a concedere favori sindacali», io non lo invito a cena, non gli stringo la mano, non lo nomino amministratore del mio condominio, non lo voto, faccio il possibile per evitare che ricopra un incarico pubblico”.

Travaglio si scaglia anche contro Fiandaca, che viene accusato di voler fare da “portaborse” al politico in quanto non solo ha educatamente accettato la sconfitta ma si è addirittura detto disponibile a fare da vice al Cocilovo in caso di sua vittoria (che non ci sarà, in quanto vincerà il candidato di centrodestra Musotto).

Non mi dilungo ulteriormente sulla vicenda: qui trovate l’articolo di Travaglio e soprattutto la replica di Fiandaca di cui vorrei riportare qualche stralcio senza commentarlo, in quanto ogni aggiunta è superflua.

Marco Travaglio è un attaccante insidioso, ma proverò a marcarlo stretto per evitare che i suoi “falli argomentativi” passino per verità rafforzate da una brillante tecnica giornalistica. A scanso di equivoci, premetto che sarei pienamente d’accordo con lui se i fatti posti alla base dei suoi ragionamenti fossero veri. E in particolare se fosse provata la percezione di una tangente da parte del candidato che lui addita come colpevole nel tribunale della pubblica opinione. Ma, come vedremo, così non è.

(…)Travaglio, che utilizza come metodo di lavoro la valorizzazione delle sentenze, sarebbe a maggior ragione tenuto – proprio per far bene il suo mestiere – a riportare correttamente gli atti giudiziari che cita e, quando è il caso, anche a metterne in evidenza i punti deboli. Sempre come professore di diritto penale, gli contesto dunque questi ulteriori falli:

a) Di non accennare minimamente al problema che nel nostro caso è tutt’altro che pacifica, a monte, la stessa configurabilità giuridica di un’ipotesi di corruzione. Per risolvere il problema in senso affermativo, il tribunale ha dovuto compiere sforzi argomentativi che hanno finito per forzare al massimo i limiti fisiologici del reato di corruzione secondo il diritto vigente (…).

b) Di dare suggestivamente per esistente quel fatto di corruzione che, invece, nella sentenza di assoluzione è stato, con riguardo a Cocilovo, escluso addirittura con la formula «perché il fatto non sussiste». Altro che «collettore di tangenti», come scrive Travaglio cercando artificialmente di far apparire come accertata dalla sentenza quella che era solo un’ipotesi accusatoria, alla fine esclusa. Sia chiaro una volta per tutte: la stessa sentenza citata da Travaglio, letta correttamente, non afferma in nessun punto che Cocilovo ha realmente percepito una tangente. Se così fosse stato Cocilovo sarebbe stato condannato. E Travaglio di conseguenza non dice la verità neppure quando aggiunge che il professore Musco avrebbe riscontrato la veridicità del fatto. Evidentemente egli legge gli atti in maniera volutamente parziale e fuorviante. Bel servizio, davvero, per i cittadini che andrebbero informati correttamente”.

Mi fermo qui. Come vedete ce n’è abbastanza perché il principe del giornalismo giudiziario abbia perennemente il dentino avvelenato contro chi fa vedere il suo metodo di lavoro per quello che è.

Per puro dovere di cronaca, segnalo che Cocilovo venne eletto alle scorse europee tra le file del PD e che dopo la seconda assoluzione del 2004 (prima non era mai stato indagato) non ha avuto più alcun problema con la giustizia. Veramente strano per un collettore di tangenti talmente avido che “non si accontenta dei soldi, ma vuole anche la valigetta (Cartier) che li conteneva”. Parola dei giudici e di Travaglio.

SECONDO ROUND: LA TRATTATIVA STATO MAFIA
A differenza del caso Cocilovo, il tema della cosiddetta trattativa Stato-mafia presenta così tanti protagonisti e si articola in così tanti episodi che non sono in grado di farne un sunto dettagliato e completo. Mi limito pertanto a riportare i fatti maggiormente rilevanti. (Una ricostruzione sufficientemente approfondita la trovate comunque su wikipedia).

Il 7 marzo del 2013 sono stati rinviati a giudizio alcuni boss di cosa nostra (tra cui Riina e Brusca) tre ex alti ufficiali dei carabinieri (Mori, Subranni e De Donno) l’ex senatore Dell’Utri e Massimo Ciancimino, figlio del noto sindaco mafioso di Palermo, Vito. Tutti costoro sono accusati non già di “trattativa” che come fattispecie di reato nel codice penale non esiste (vale la pena di ricordare quanto previsto dall’art. 25 comma 2 della Costituzione: nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso), ma di “minaccia ad un corpo politico dello Stato” (art. 338 c.p.). Per completezza riporto il testo dell’articolo in questione:

Chiunque usa violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario o ad una rappresentanza di esso, o ad una qualsiasi pubblica Autorità costituita in collegio, per impedirne in tutto o in parte, anche temporaneamente o per turbarne comunque l’attività, è punito con la reclusione da uno a sette anni.

In breve, secondo l’accusa sostenuta dai PM della Procura di Palermo, dopo la conferma da parte della Corte di Cassazione nel gennaio 1992 delle numerose sentenze di condanna, anche all’ergastolo, irrogate nel cosiddetto maxiprocesso – di cui erano stati principali artefici Falcone e Borsellino – la mafia si era trovata spiazzata in quanto aveva perso la certezza che comunque, dopo qualche fisiologico anno di galera, boss e picciotti tornavano in libertà. La reazione a questa sorta di lesa immunità furono le stragi di Capaci e Via d’Amelio (rispettivamente, maggio e luglio 1992) in cui la mafia si vendicò contro i magistrati, precedute però dall’omicidio di Salvo Lima, luogotenente di Andreotti in Sicilia, nel marzo dello stesso anno.

Secondo i PM di Palermo è proprio l’omicidio di Lima che innesca la cosiddetta trattativa: gli alti ufficiali dei carabinieri avrebbero preso contatto con i boss tramite Vito Ciancimino allo scopo di trovare un accordo per impedire la morte violenta di altri politici, in particolare Calogero Mannino. Il prezzo richiesto dai boss sarebbe stato illustrato nel cosiddetto papello di Totò Riina, un testo in 12 punti consegnato agli inquirenti da Massimo Ciancimino nel 2009. Tra questi punti, in particolare, figuravano l’abolizione del 41bis, la nomina nei ruoli chiave della giustizia di persone maggiormente compiacenti e la revisione delle sentenze del maxiprocesso.

I contatti tra ufficiali e mafiosi sarebbero cominciati subito dopo la strage di Capaci e Borsellino sarebbe stato ucciso anche perché aveva avuto sentore dell’avvio della “trattativa” e voleva vederci chiaro. Quello che però è veramente importante è la tesi secondo la quale le stragi di via d’Amelio prima e quelle di Firenze (maggio 1993) e Milano (luglio dello stesso anno) poi – oltre a tutta una serie di episodi minori – sarebbero state finalizzate a far accettare alla politica il predetto “papello”: qui starebbe la “minaccia” contro il “corpo politico” e, in tutto ciò, gli ufficiali del ROS e dell’Utri sarebbero accusati di concorso nel reato per aver avviato il dialogo con cosa nostra e aver contribuito in tal modo alla definizione del “pacchetto” di concessioni che era nell’interesse dei mafiosi far approvare, il tutto in cambio della pelle dei politici.

Ora, secondo quanto emerso dalle indagini, in effetti ci furono contatti tra i predetti ufficiali e Vito Ciancimino. Quale fosse la natura e il contenuto di questi contatti però non è affatto certo: secondo le dichiarazioni del figlio di don Vito si sarebbe trattato, appunto, di contatti finalizzati a trovare un accordo coi boss di Cosa nostra al fine di proteggere i politici; secondo gli imputati, invece, quella strategia avrebbe fatto parte di un più complesso piano di azione volto a impedire altre stragi dopo quella di Capaci, anche acquisendo informazioni da parte di un soggetto sicuramente con ottime entrature presso i boss, eventualmente remunerandolo garantendogli impunità e protezione.

Quali sarebbero, infine, le “prove” che la trattativa andò a buon fine? la sostituzione (da parte dell’allora PdR Scalfaro) del ministro della Giustizia Martelli (considerato refrattario ad ogni tentativo di appianamento con la criminalità organizzata) con il Prof. Conso, il quale non rinnovò il regime carcerario del 41 bis a circa 300 esponenti di secondo piano di Cosa Nostra (novembre 1993).

Torniamo alla nostra disfida tra Travaglio e il Professore, qual è qui la ragione del conflitto? Un dibattito organizzato all’Università di Palermo dal Prof. Fiandaca nel luglio del 2013, nel corso del quale lo stesso presentò il contenuto di un suo saggio relativo alla trattativa in cui, oltre a mettere in dubbio dal punto di vista tecnico giuridico la configurabilità del reato di cui all’art. 338 c.p., dubitava anche che si potesse parlare sul piano fattuale di una “trattativa” vera e propria tra uomini dello Stato e boss, questo perché dalla ricostruzione dei fatti proposta (con incontri avuti in occasioni diverse tra soggetti diversi, sia dello Stato che della mafia) emergeva uno scenario talmente frammentato da rendere molto difficile una “unicità di disegno criminoso” che avrebbe accomunato tutti questi episodi sotto un unico denominatore comune. Infine, dal punto di vista strettamente probatorio, molti di questi “fatti” erano narrati da un soggetto – Massimo Ciancimino – la cui credibilità è tutt’altro che pacifica e il cui scopo è chiaramente salvare sé stesso e soprattutto il ricco patrimonio ereditato da don Vito.

Naturalmente il nostro eroe non può perdonare un simile affronto e ci va giù pesante:
l’altroieri l’Università di Palermo, con uno zelo e un tempismo degni di miglior causa, aveva radunato i migliori difensori d’ufficio di Mancino, Mannino, Conso, Dell’Utri, Mori e De Donno per una gran soirée simposio contro il processo, alla presenza di Macaluso, storici, giuristi e persino magistrati in servizio o in pensione (c’era pure Di Lello), tutti stretti attorno al nuovo idolo del partito anti-pm: l’esimio professor Giovanni Fiandaca, già candidato trombato alle primarie del centrosinistra per il Comune di Palermo e autore di uno squisito “saggio” pubblicato sul Foglio col raffinato titolo “Il processo sulla trattativa è una boiata pazzesca”.

Fiandaca ha l’ardire di replicare da par suo qualche giorno dopo:
Un recente dibattito all’ Università di Palermo sulle questioni sollevate dal processo sulla cosiddetta trattativa, com’era prevedibile, ha sollecitato l’estro polemico di Marco Travaglio (cfr. il Fatto quotidiano del 5 luglio). Per non smentirsi, Travaglio non argomenta, ma attacca pesantemente sulla base della sua fideistica adesione alle impostazioni accusatorie dei pubblici ministeri: dogmi religiosi che è blasfemo pensare di poter discutere. L’attacco ad hominem nei confronti della mia persona prescinde completamente – e anche questo era prevedibile – dagli argomenti sviluppati nel mio saggio pubblicato sulla rivista Criminalia, e ripubblicato sul Foglio del primo giugno: sono sicuro che egli non l’ha letto, considerandolo aprioristicamente prodotto intellettuale inaffidabile di un azzeccagarbugli filomafioso”.

Travaglio si sente punto sul vivo e si lancia in una filippica incontenibile:
Il professor Giovanni Fiandaca, giurista “de sinistra”, ha ottenuto un’improvvisa notorietà con un presunto “saggio” contro il processo sulla trattativa Stato-mafia (…)Presunto sarà lei. Fiandaca parla di ”cosiddetta trattativa” e “presunta trattativa”. Cominciamo bene. La trattativa Stato-mafia è giudiziariamente indiscutibile in quanto confermata da sentenze definitive della Cassazione sulle stragi del 1992-‘93, oltreché dai diretti protagonisti e testimoni, non solo mafiosi: Mori e De Donno parlano a verbale di “trattativa” con i capi di Cosa Nostra tramite Vito Ciancimino, e non di una semplice “presa di contatto”, come fa loro dire Fiandaca. Che deve farsene una ragione: se vuol parlare di trattativa, si legga almeno le sentenze. Ma per lui tutto è presunto. Infatti, riassumendo le tesi dell’accusa, scrive: “Cosa Nostra avrebbe reagito (alla sentenza del maxiprocesso, ndr) ideando e in parte realizzando un programma stragista”. Avrebbe? Dunque anche le stragi sono cosiddette e presunte?

Memorabile la conclusione:
Casomai Fiandaca volesse confrontarsi in pubblico, a Palermo o in tv o dove vuole lui, io sono pronto. Troverà pane per la sua dentiera”.

E qui devo aprire una parentesi a proposito di dentiere.

EXCURSUS: TRAVAGLIO E LA VECCHIAIA
Il 28 febbraio del 2013 Travaglio pubblica un editoriale su FQ dal titolo “Gli ingrillati” in cui contrappone i “freschi e sorridenti” 5 stelle ai vecchi bacucchi della politica. Riporto il passaggio saliente.
Basta guardarli in faccia (i 5 stelle, ndr) per comprendere che, per quanto si sforzino, non riusciranno mai a eguagliare i danni dei professionisti della politica. Per i quali la prima vera punizione sarà la coabitazione forzata con quelle facce e quelle storie che, da vecchi he sono, li renderanno decrepiti e putrefatti. Basterà una telecamera puntata sul nuovo parlamento per evidenziare l’impietoso contrasto. Da una parte quei volti freschi e sorridenti. Dall’altra un carrello di bolliti carichi di rimborsi pubblici, indennità, diarie, gettoni di presenza e assenza, prebende, pennacchi, cavalierati, scorte, autoblu, portaborse, sottopancia, raccomandati, postulanti, servi, giornalisti di riferimento, consorterie, banche, lobby, aziende, amici degli amici, pappagorge, bargigli, ascelle, parrucchini, tinture e ceroni colanti, dentiere, forfore, alitosi, flatulenze, prostate gonfie, cinti erniari, plantari, callifughi, cateteri e pannoloni”.

Riassumendo: essere giovani è una qualità morale, essere vecchi e invalidi un crimine: tenetelo a mente.

LA MAFIA NON HA VINTO
Il 18 febbraio di quest’anno Travaglio torna alla carica contro il Professore. E’ allarmatissimo perché sul Corriere un articolo di Giovanni Bianconi ha anticipato l’uscita di un libro “La mafia non ha vinto” (editore Laterza) scritto da Fiandaca in collaborazione con lo storico palermitano Salvatore Lupo, che ha al suo attivo diversi libri sulla storia del ‘900 e sulla storia della mafia in particolare.
Esce finalmente nelle librerie il saggio che dovrebbe spezzare le reni al processo sulla trattativa Stato-mafia e ai magistrati che l’hanno istruito: La mafia non ha vinto. (…).In attesa di leggere il libro e di parlarne più diffusamente, già l’anticipazione fornisce spunti interessanti per qualche riflessione. Intanto, una buona notizia. Fino all’altro giorno, Fiandaca era noto per un lungo articolo pubblicato sul Foglio dal titolo fantozziano “Il processo sulla trattativa è una boiata pazzesca”, in cui la trattativa era definita “cosiddetta” e “presunta”. Ora, forse grazie all’aiuto dello storico, il giurista siciliano se n’è fatta una ragione: “La trattativa c’è stata, solo che purtroppo (per i boss, ndr) qualcuno si è rimangiato la parola” (…).Passato con disinvoltura dal negare all’ammettere l’esistenza della trattativa, Fiandaca accusa la Procura di Palermo di “pregiudiziale atteggiamento criminalizzatore” e di un’“avversione morale” verso “ipotesi trattativiste”, che a suo dire sarebbero cosa buona e giusta e doverosa: le “concessioni a Cosa Nostra” da parte di “negoziatori istituzionali” avvennero in “stato di necessità” e “a fin di bene”. (…).E proprio qui casca l’asino di Fiandaca e Lupo: se persino loro devono ammettere che “la trattativa c’è stata”, sia pure per necessità e a fin di bene, mentre i politici che essi difendono continuano a smentirla negando anche l’evidenza, non li coglie il dubbio che i rappresentanti del cosiddetto Stato nascondano qualcosa di ben più terribile? E cioè, per esempio, che pezzi di Stato aiutarono Cosa Nostra a fare le stragi?”.

Ora, io il libro l’ho letto, e vi posso assicurare che in nessun passo Lupo o Fiandaca hanno ammesso che “la trattativa c’è stata” ed è stata “a fin di bene”: entrambi gli studiosi parlano sempre e comunque i “cosiddetta trattativa” o “presunta trattativa”. Certo i contatti con don Vito ci furono, ma:
l’iniziativa di Mori e De Donno di contattare Ciancimino può essere – anche a posteriori – considerata meritoria e coraggiosa (…). Gli ufficiali del Ros (…) non tennero segreta la presa di contatto con Vito Ciancimino, al contrario ne diedero notizia a vari soggetti istituzionali di loro fiducia (come per esempio, il magistrato Liliana Ferraro). Il che contrasterebbe con l’assunto accusatorio di un negoziato finalizzato a patti scellerati. (…) L’azione di Mori (…) appare concepibile più come volta ad un contingente fine difensivo (arginare la strategia stragistica, eventualmente attenuando eventuali rigori del carcere duro) che non a un obiettivo di durevole riappacificazione col potere mafioso.” (pagg. 100 e 101).

Insomma, i contatti ci furono (così come ci sono sempre, con informatori e soggetti che gravitano nell’ambito criminale: è assurdo pensare alla polizia come alla cavalleria che arriva, sconfigge i nemici, e se ne va) ma furono finalizzati alla tutela dei cittadini (tutti) e dell’ordine pubblico. In questo senso le stragi di via d’Amelio, Firenze e Milano non costituiscono – secondo Fiandaca – le minacce volte a far accettare il contenuto della “trattativa” ma una risposta violenta alle sentenze del maxiprocesso.

Intanto il 17 luglio 2013 il Tribunale di Palermo ha assolto Mori dall’accusa di favoreggiamento per la mancata cattura di Provenzano nel 1995: Il Tribunale non solo ha assolto con formula piena (perché il fatto non sussiste) Mori e un altro imputato dall’accusa di aver favorito la latitanza di Bernardo Provenzano e ha ravvisato, a carico dei due principali testi dell’accusa, Massimo Ciancimino e Michele Riccio, ai sensi dell’art. 207 del Codice di Procedura Penale, indizi del reato previsto dall’articolo 372 del Codice Penale (falsa testimonianza).

TRAVAGLIO NON HA VINTO
Mi accingevo a chiudere questo pezzo, già troppo lungo, quando proprio oggi è apparso l’ennesimo articolo del nostro eroe contro il Prof. Fiandaca, reo di aver accettato la candidatura alle europee con il PD.
Il fatto che Fiandaca scriva i suoi manuali di diritto a quattro mani con l’avvocato Enzo Musco, difensore del generale Mori, è solo una coincidenza. Del resto il Pd ha un’attrazione fatale per gli avvocati della trattativa: ha appena portato alla Camera e al governo Umberto Del Basso de Caro, difensore di Nicola Mancino (e a sua volta inquisito per Rimborsopoli)”.

Notate come il nostro veda complotti e corruzione dappertutto: difendere le persone (innocenti fino a sentenza definitiva) che lui ha già bollato come criminali è reato. Non parliamo poi dell’essere inquisiti.
Poi però quando si parla del suo amico Grillo, l’omicidio plurimo colposo diventa “un tragico incidente stradale” mentre nessuna parola è spesa sulle condanne per diffamazione e violazione di sigilli.

Leggete il libro di Fiandaca e Lupo: oltre ad apprendere molte notizie sulla storia recente d’Italia, io ne ho tratto la conferma dell’importanza di una voce critica, sia essa un professore universitario o il blog dei caproni, perché niente è peggio dell’assoluta certezza di essere dalla parte della verità: chiedete alle “streghe” bruciate nei roghi del medioevo da gente profondamente convinta di combattere il male e il demonio.

Lupo-Fiandaca

I commenti sono chiusi.