Serenissima – verso un nuovo mondo

Ci siamo lasciati nel 1453, quando i turchi conquistarono Costantinopoli, una data, assieme alla scoperta dell’America di Colombo, che nei libri di storia scrisse la fine del medioevo e nel nostro caso sancì l’inizio del declino della Serenissima. Il Papa lanciò appelli, ma quando si trattò di entrare nel concreto il suo assenteismo fu totale. Niente di meno dai principi cristiani che si squagliarono, salvo scandalizzarsi per il modo con cui i Veneziani cercavano di proteggere le sorgenti del loro potere economico attraverso il turco. Durante la caduta di Costantinopoli, i Veneziani parteciparono con slancio e coraggio alla difesa della città, il Bailo fu decapitato, i danni materiali valutati in duecentomila ducati, quaranta patrizi e altri cinquecento sudditi veneziani dispersi, ma c’era quella maledetta guerra di Lombardia che divorava sforzi e denari.

 

A quel punto Venezia preferì trattare, con esito positivo. Ognuno si assestò sulle rispettive posizioni, se il turco era pronto all’attacco, Venezia lo era a difendersi e se necessario a contrattaccare. E da quel momento fra i due rivali, che si affronteranno quasi ininterrottamente, si stabilizzò un rapporto da amici-nemici che caratterizzò il mondo mediterraneo fino agli inizi del settecento. Nonostante le campagne di guerra e gli scontri cruenti, quando gli ottomani riunirono sotto il loro dominio Paesi instabili come la Siria, la Palestina, l’Iraq e l’Egitto, favorirono gli scambi commerciali veneziani più di quanto li danneggiassero.

 

Isolata diplomaticamente, inferiore militarmente, cosciente dell’aleatorietà dei tributi promessi dalle potenze cristiane, Venezia intuì che solo una flessibile ed accorta condotta le avrebbe consentito di usufruire di favorevoli posizioni commerciali in oriente e mai diede al conflitto un carattere totale, come auspicato da pontefici, principi, scrittori e uomini politici occidentali, più o meno ingenui e disinteressati. Fu in questo contesto che vennero emanate le dure leggi fiscali illustrate nel precedente capitolo (post).

 

In questo periodo duro per la politica veneziana, Franceso Foscari uno dei più grandi, con il più lungo dogado che Venezia possa vantare assieme alla maggiore espansione territoriale della sua storia, fautore della conquista dell’entroterra con la sua personale ed umana vicenda, meritano un sunto a parte. Aveva una grossa personalità e una grande levatura che sapeva come maneggiare durante le assemblee e usare le sue risorse con la sua eloquenza, sostenendo la necessità di costruire alle spalle di Venezia uno Stato continentale, prima che qualcun altro lo facesse prima, con una opposizione fortissima che si rinforzava sempre più, mano a mano che lo stato di guerra in terraferma ingoiava denaro ed energia (alla pace di Lodi erano già stati spesi sette milioni di ducati) e fra gli oppositori non c’erano solo ingenui intellettuali, ma i maestri dalla politica navale e coloniale, gente esperta della mercatura e della guerra fra cui la massima “coltivar el mar e lassar star la terra” appariva un assioma sempre più valido.

 

Francesco Hayez - L'ultimo abboccamento di Jacopo Foscari con la propria famiglia prima di partire per l'esilio cui era stato condannato - Firenze, Galleria Palatina - 1852.

Francesco Hayez – L’ultimo abboccamento di Jacopo Foscari con la propria famiglia prima di partire per l’esilio cui era stato condannato – Firenze, Galleria Palatina – 1852.

 

Purtroppo il lungo governo del Foscari fu traviato dalla vita e dalle sorti del figlio Jacopo, l’unico rimasto dopo che gli altri se li era portati via la peste e a distanza di secoli è ancora difficile appurare quanto le vicende private con le sue componenti affettive avessero influito in quelle pubbliche. Jacopo era un ragazzo studioso, intelligente, raffinato, conoscitore dei classici e dalla grossa personalità, ma allo stesso tempo superficiale, fatuo, leggero, e poco consono del suo ruolo di figlio del doge, del Capo dello Stato. I primi guai arrivarono quando si scoprì che Jacopo accettava regali, anche di un certo rilievo, in cambio di favori legati alla sua posizione, cosa grave e inaccettabile per le leggi veneziane. Il consiglio dei Dieci lo condannò all’esilio nel Peloponeso, ma prima della condanna Jacopo era già fuggito a Trieste con il malloppo e non ebbe alcuna intenzione di farsi esiliare. Fingendosi Jacopo ammalato, che i Dieci fecero finta di accettare, la pena fu commutata nell’esilio a Treviso. Riuscì successivamente a tornare a Venezia per l’intercessione del doge. Ma una notte uno dei delegati che lo avevano giudicato fu ucciso e le colpe ricaddero su di lui. I Dieci, pur non avendo prove e non avendo ottenuto alcuna confessione, optarono per l’esilio a Creta. E qui Jacopo, abituato ai lussi e alle stravaganze di Venezia dove voleva ritornare, commise l’errore così grossolano da scrivere al sultano Mehemed II e a Francesco Sforza, duca di Milano perché intercedessero per un suo ritorno. Cosa inconcepibile e scandalosa per i Dieci, fu riportato a Venezia e qui di nuovo processato con la pena di un anno di carcere e l’esilio perpetuo a Creta.

 

Scrittori, pittori, musicisti e vari registi (Byron, Verdi, Francesco Hayez, Eugène Delacroix) rappresentarono la scena dell’addio fra padre e figlio in quello che fu uno degli episodi più dolorosi della vita di Francesco Foscari. Negli anni successivi il doge intervenne costantemente per far tornare il figlio a Venezia, forse ci sarebbe riuscito se questo non fosse morto a Canea. Da quel giorno il doge cadde in una desolante depressione, non partecipò più alle assemblee, funse il suo compito di doge con distrazione e trascuratezza. E qui i Dieci tramarono per spodestarlo, anche se, per le leggi veneziane, era il Maggior Consiglio l’unico organo che poteva far abdicare un doge. Francesco Foscari aveva ottantacinque anni e regnava da trentacinque con la tempra di un lottatore, quindi quando gli fu chiesto di abdicare, i Dieci si trovarono non poca resistenza finché il 22 ottobre 1457 gli fu intimato di lasciare il palazzo ducale entro otto giorni, se avesse rifiutato gli sarebbero stati confiscati tutti i beni. A questo punto Francesco Foscari si piegò e si ritirò nel suo palazzo di San Barnaba.

 

I due Foscari, film diretto da Enrico Fulchignoni (1942)

I due Foscari, film diretto da Enrico Fulchignoni (1942)

 

I Dieci avevano concluso e imposto la loro volontà, ma un grande imbarazzo scese sulla città. I Dieci vennero criticati e soprattutto dal Maggior Consiglio perché erano andati troppo oltre le loro competenze. Perché troppe volte i Dieci si erano mobilitati a difesa del sistema, perché una delle componenti del sistema politico-istituzionale veneziano pensava di alterarne l’equilibrio a proprio vantaggio. Dopo questo episodio, i Dieci agli occhi dei più si trasformarono da difensori della legalità repubblicana in una minaccia per la legalità repubblicana. Da cui la vicenda Foscari diede l’avvio ad una serie di provvedimenti legislativi limitativi dei poteri dei Dieci. La reazione fu durissima dall’eco dell’indignazione del Maggior Consiglio quando affermò: “Il Consiglio dei Dieci è stato creato non per suscitare scandali, ma per placarli e impedire che avvengano”.

 

Il 30 ottobre al neoeletto doge Pasquale Malipiero, mentre stava a sentir messa, arrivò la notizia che fece imbarazzare non poco tutti quanti, Francesco Foscari era morto. Un imbarazzo che fece capire quanto fosse stata inutilmente crudele l’umiliazione inflitta al venerando uomo politico a pochi giorni dalla sua morte.

 

Francesco Foscari lasciò a Venezia un entroterra continentale che andava ben oltre al Veneto, incorporando oltre al Friuli le ricche città lombarde di Bergamo, Brescia e Crema, più Rovereto e Ravenna. Tra la capitale e le terre italiane, che non furono colonie come Creta o Negroponte, ma non si integrarono mai politicamente con Venezia in un rapporto di parità, le relazioni si formalizzarono. Più o meno in generale Venezia lasciò dappertutto una larga autonomia amministrativa, ma la politica fu sempre saldamente in mano al Maggior Consiglio. I territori passarono sotto il controllo di capitani, tutti patrizi veneziani, mentre la carica di podestà diventò organo giudiziario ed esecutivo del dominio veneziano, anch’esso eletto dal Maggior Consiglio. Entrambi erano responsabili solo nei confronti del potere centrale. Tra gli storici c’è chi protende a una dominazione sfruttatrice, una colonizzazione che avrebbe spremuto e avvilito e che avrebbe bloccato generose spinte a una gestione autonoma provocando una sorta di decadenza, della quale, visitando città come Verona, Vicenza, Padova, Udine, ma soprattutto piccole cittadine come Conegliano, Asolo, Marostica, non ci si accorge, perché non è mai esistita.

 

Dominazione veneziana all'epoca di Francesco Foscari

Dominazione veneziana all’epoca di Francesco Foscari

 

Nel microcosmo delle comunità di terraferma, il potere locale si stabilizzò nelle varie aristocrazie, sempre più cristallizzate fra rettori del potere centrale e il resto della popolazione. E se anche il popolo non aveva poteri, come del resto neanche a Venezia, è certo che la dominazione veneziana portò al popolo in misura maggiore ad ogni altro dominio dell’epoca, quelle che secondo i teorici del socialismo erano le libertà fondamentali: la libertà di lavorare, la libertà di non morire di fame, la libertà dalle prepotenze e soperchierie. Funzione specifica dei rettori era vigilare sulle aristocrazie locali e la protezione dei non patrizi dalle prepotenze, proteggere i cittadini contro le sopraffazioni dei privilegiati. Come a Venezia avveniva per alcune magistrature, i Dieci in testa. I cittadini, i contadini, i villani tradizionalmente oppressi dai feudatari e dagli ecclesiastici locali, trovarono nei rettori i loro protettori naturali. A controllare i rettori intervenivano visite periodiche di magistrature itineranti, i sindaci inquisitori inviati sistematicamente da Venezia in città e contadi “per far giustizia e mantegnir la ritta”. E i sindaci inquisitori erano controllati dal senato e dal Maggior Consiglio ai quali le comunità locali potevano far appello direttamente.

 

Al confronto delle crudeli vessazioni che il potere centrale inflisse alle comunità rurali di certi paesi (Richelieu, Colbert) la mitezza del governo veneziano fu unica. Sotto la protezione del leone marciano, la terraferma diede una nuova misura. Diventata università di Stato, l’antica università di Padova aumentò il prestigio, attirando alunni da tutta Europa mentre lo Stato veneziano si preoccupava della libertà d’insegnamento di fronte alle intimidazioni ideologiche d’ogni tipo. La grande arte veneta fu il ricongiungimento della Venezia marittima con quella terrestre. Rimane purtroppo ancor oggi un punto oscuro, quello dell’esclusione delle classi dirigenti della terraferma alla gestione del potere veneziano. Il principale ingrediente della decadenza e della debolezza che consegnerà trecentoquarant’anni dopo la morte di Francesco Foscari, Venezia e il Veneto nelle mani del generale Bonaparte e dalle sue mani a quelle della casa d’Austria.

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