Serenissima – Paolo Sarpi

Dopo Lepanto, Mehemed Sokolli, il gran Visir che non avrebbe mai voluto la guerra con Venezia, disse al Bailo Marcantonio Barbaro: “c’è una grande differenza fra la vostra situazione e la nostra. Togliendovi Cipro vi abbiamo tolto un braccio, battendoci a Lepanto ci avete rasato la barba”. Alla fine del ‘500 Venezia rifiutò sia un’alleanza persiana, che dallo zar di Mosca contro i turchi. Troppi gli interessi che la portarono a una tregua con i turchi, naturalmente criticata dalle potenze europee. Ma in quegli anni si affacciarono nel Mediterraneo navi inglesi e verso la fine del ‘500 anche quelle olandesi.

 

L’economia veneziana risentì il colpo quando la Spagna si annesse il Portogallo, dopo il quale le fu offerto un accordo sul commercio (soprattutto sul pepe) ma Venezia, seppur i suoi ambasciatori spinsero per l’accettazione, declinò. L’accordo era vantaggioso, ma circa quattromila famiglie veneziane impegnate nel commercio in levante sarebbero andate in rovina. Gli dettero ragione i mercanti tedeschi che non ne trassero grandi profitti, la sconfitta dell’Invincible Armada da parte degli inglesi e l’insicurezza delle rotte atlantiche finì per fare del commercio in Levante un affare migliore. Ma fu l’ingresso degli olandesi e la formazione delle “compagnie” delle Indie Orientali a rovinare il commercio delle spezie, in quel secolo XVII che sarà il secolo d’oro per la Spagna, ma non per la Serenissima.

 

Nel 1584 a Venezia ci fu la completa estinzione del debito pubblico, ci furono grandi festeggiamenti in onore degli ambasciatori giapponesi e le tensioni con l’Austria provocarono, a monito degli Asburgo e dei turchi, la costruzione dell’imponente fortezza di Palmanova, operazione politicamente e tecnicamente audace Anche se dopo Lepanto, nonostante la vittoria, Venezia non fu più una grande potenza, rispetto ai giganti che la circondavano, ma era ancora vitale, scattante e aggressiva come una vespa. Era ancora una potenza economica, navale, politico-diplomatica. E con l’inizio del XVII secolo la Repubblica era ancora ricchissima.

 

Città fortezza di Palmanova - 1593

Città fortezza di Palmanova – 1593

 

Nel ‘600 ci fu una disputa, con alcuni culmini assai gravi, fra i “giovani” e i “vecchi” che non rappresentavano l’età, ma che potrebbero essere paragonati agli attuali conservatori e progressisti. Disputa che si protrasse per lungo tempo e con toni molto accesi, tanto che l’ambasciatore inglese comunicò a Londra: ”a Venezia si sta consumando una specie di guerra civile fra la nobiltà”. I “giovani” cominciarono a rivogersi sempre più alla politica ecclesiastica della Repubblica; erano gli anni del Concilio di Trento e della Controriforma attraverso la quale i “vecchi” si muovevano a loro agio in un clima spirituale orientato dai Gesuiti. Mentre fra i “giovani” prese piede una religiosità più complessa, curiosa delle esperienze d’oltralpe e da quelle eterodosse.

 

La Curia romana nutriva riserve su tutto il mondo veneziano: il patriottismo, lo spirito d’indipendenza l’autonomia del clero e del patriziato, non meno che alla tradizione di libertà più che mai sentita. Ma soprattutto la rivendicazione dei diritti dello Stato anche nelle materie ecclesiastiche. Inoltre i lamenti del papa si facevano sempre più duri per l’eccessiva tolleranza che Venezia dimostrava per quella peste luterana. Il giovedì santo del 1568, Pio V aveva emanato la bolla In Coena Domini indirizzata alla Spagna e a Venezia dove si elencavano i punti in cui pretendeva obbedienza: vietava l’accoglimento di nuclei non cattolici, (per Venezia era chiaro il riferimento agli ebrei, ai greci ortodossi, agli studenti protestanti dell’università di Padova). Vietava l’appello al Concilio contro le decisioni papali, di cui Venezia aveva usufruito tante volte. E riaffermava l’immunità del clero e la sua inviolabilità da parte dei tribunali ordinari. Un punto particolarmente sgradito per la Repubblica.

 

La Serenissima accolse molto male la bolla, ne vietò la pubblicazione e dichiarò di non accettarla. A tutto ciò si aggiunse il problema, mai risolto, della libera navigazione nell’Adriatico. La guerra Santa e con il turco avevano fatto passare in secondo piano queste diatribe che a fine secolo ri-uscirono con l’atteggiamento intransigente del partito dei “giovani” il cui credo, nonostante la scabra religiosità, era una dedizione sacerdotale alla vita politica e un moralismo intransigente che guardava con ripugnanza lo strapotere dei papi e l’attivismo dei Gesuiti. Dietro a cui si vedeva l’ombra della Spagna, ormai dominante su quasi tutta la penisola e come contrasto all’accerchiamento austriaco i “giovani” pensarono di allearsi con le forze vive d’Europa: gli inglesi, gli olandesi, con i principi tedeschi protestanti e naturalmente con la Francia.

 

Alla morte del patriarca di Venezia, nel 1600, il Senato dette la successione ad un laico, ma papa Clemente VIII aveva disposto che tutte le nomine vescovili avrebbero dovuto passare da Roma per sostenere un esame di idoneità. Venezia rifiutò, per le sue prerogative acquisite e soprattutto per non creare un precedente. L’irascibile Clemente VIII, con il quale c’erano in sospeso diverse vertenze, non voleva una rottura con Venezia (e indirettamente con la Francia) che lo avrebbe completamente trascinato nelle mani della Spagna, quindi si arrivò a dei compromessi. Ma nel 1605 salì al trono papale Paolo V, Camillo Borghese, sostenitore dell’intransigenza più dura e inflessibile riguardo l’autorità ecclesiastica. Proveniente da esperienza inquisitoriale e curiale. Fu subito linea dura: impose alla Francia l’accettazione delle norme del Concilio di Trento, censurò i duchi di Parma e di Savoia, obbligò Lucca e Genova a rimangiarsi alcuni provvedimenti, riprese le proteste per l’obbligo imposto ai navigli pontifici di passare da Venezia e intimò al patriarca di andare a Roma per farsi esaminare.

 

Paolo V – Caravaggio 1605

Paolo V – Caravaggio 1605

 

Purtroppo per lui, in quel periodo nel Senato i “vecchi” erano diventati minoranza e il partito dei “giovani” assunse un’intransigenza pari e contraria a quella papale, atteggiamento che a Paolo V, puzzava di eresia. Nacque quindi in lui la voglia di dare l’esempio e l’occasione arrivò subito quando furono arrestati, per ordine dei Dieci, due fior di canaglie, un canonico per reati comuni e poco dopo un abate, accusato di omicidi.

 

Il papa ne chiese immediata consegna al foro ecclesiastico a cui seguì l’immediata risposta di Venezia da parte dell’ambasciatore, facente parte del partito dei “giovani”: i veneziani nati in libertà non erano tenuti a rendere conto delle operazioni loro se non al Signor Iddio, unico superiore al Doge nelle cose temporali. Il papa dichiarò nulli tutti gli atti controversi abrogandoli. La risposta di Venezia fu di irrigidimento, eleggendo doge il 10 gennaio 1606, Leonardo Donà, uno dei “giovani” più intransigenti. Due settimane dopo veniva nominato consultore in jure, teologo e canonista della Serenissima Repubblica, con uno stipendio di duecentottanta ducati l’anno, fra Paolo Sarpi, dell’ordine dei servi di Maria, teologo, astronomo, matematico, fisico, anatomista, letterato e polemista.

 

Il papa rispose con l’obbligo di abrogazione di tre leggi e se entro 24 ore i prigionieri non fossero stati consegnati e le leggi abrogate, la Repubblica sarebbe stata colpita dall’interdetto, ovvero il divieto di compiere qualsiasi funzione religiosa, mentre il Senato sarebbe stato scomunicato. Ma si trovò di fronte ad un doge esperto e combattivo, circondato da menti di grande levatura. Inoltre Paolo Sarpi, sacerdote di origini friulane dalla profonda religiosità, di varia cultura, intimo amico di Galileo Galilei, ebbe tutte le doti per mantenere le argomentazioni veneziane nella lunga guerra delle scritture che seguì. Il 6 maggio 1606 un suo documento dal titolo Protesto venne diffuso in tutta la Repubblica, nel quale l’ultimatum papale venne dichiarato nullo e privo di valore perché contrario alle Scritture e ai Padri Sacri. Diffuso in tutto il territorio della Serenissima, il Protesto decretò che la vita religiosa continuasse come prima.

 

I Teatini e i Cappuccini non se la sentirono di obbedire e se ne andarono, i Gesuiti che tentarono di rimanere osservando le disposizioni del papa, vennero espulsi, proteggendoli con scorta armata dall’ostilità del popolo che li salutò con l’augurio: “andé in malora!”, un parroco di Venezia che non voleva dire messa si trovò con una forca davanti casa e con la scelta fra la messa o la forca. Il risultato fu che tutto andò avanti come prima.

 

Ma nonostante la pacatezza del governo veneziano, la tensione coinvolse tutta Europa e che la contesa potesse provocare una deflagrazione generale era concreta. Persino i turchi avevano preso posizione offrendo aiuto a Venezia. Fortunatamente il conflitto si consumò solo sul piano polemico, una guerra di scritture offensiva da parte del papa e difensiva da Venezia, ma trattata con “ardore assai grande” (Paolo Sarpi) che investì i rapporti fra Chiesa e Stato, fra potere spirituale e temporale, fra autorità ecclesiastica e laica.

 

Fu così che di fronte alla minaccia di un eternizzarsi della lite, che avrebbe potuto sfociare in uno scisma, le potenze straniere intervennero. La prima mossa la fece la Spagna con un suo ambasciatore, che pur trovando il favore del doge, fu rimandato al mittente da uno dei senatori più estremisti. Toccò in seguito alla Francia che negoziò un compromesso: i due canonici accusati furono consegnati alla Francia la quale indirettamente li fece pervenire al papa. L’interdetto fu tolto, e da parte veneziana anche il Protesto, ma non l’abrogazione delle leggi contestate.

 

Monumento a Paolo Sarpi – Campo Santa Fosca - Venezia

Monumento a Paolo Sarpi – Campo Santa Fosca – Venezia

 

Nelle lunghe e faticose trattative il Senato si dimostrò puntigliosissimo, finendo per spuntarla. Cosa che a papa Borghese non andò giù. Oltretutto Venezia non aveva voluto saperne dell’assoluzione solenne del papa, perché avrebbe significato l’accettazione delle censure, quando il papa sosteneva che senza l’accettazione le censure non potevano essere canonicamente rimosse. Fu così che finì in farsa, il cardinale di Joyeuse borbottò la formula assolutoria senza farsi sentire, abbozzando sotto la cappa il segno della croce.

 

Altri fatti seguenti dimostrarono ancor più che la Repubblica non accettava le leggi di Roma e diplomaticamente i due disputanti non si riavvicinarono. Il Senato non volle riammettere i Gesuiti all’interno dello Stato e comminò pene severe per chi avesse fatto educare i figli da loro fuori dal territorio veneziano, un abate colpevole di ratto a mano armata della moglie di un mercante fu processato e condannato dai Dieci e Venezia rifiutò di assegnare l’abazia polesana di Vangadizza a Scipione Borghese, nipote del papa.

 

Ma per Paolo V la posizione più spinosa furono i teologi, coloro che puntigliosamente avevano sostenuto le tesi veneziane contro quelle papali e i loro scritti che, benché messi al bando da Roma, si vendevano tranquillamente in tutte le librerie veneziane. Il primo fu Paolo Sarpi, ufficialmente scomunicato, del quale fu richiesta ufficialmente la consegna per processarlo, a cui Venezia rifiutò categoricamente. Ma non c’era solo lui e la pressione del nunzio apostolico non bastò a salvare gli altri dalla vendetta papale: l’ex gesuita Giovanni Marsilio morì avvelenato, Fulgenzio Manfredi che si presentò a Roma per discolparsi finì al rogo e lo stesso Sarpi fu avvertito dall’ambasciatore veneziano di stare attento. Ma neppure lui sfuggì alla lunga mano dei bravi papali, il 5 ottobre 1507 mentre rincasava fu aggredito sul ponte di santa Fosca e pugnalato tre volte, al collo e alla bocca, da cui sopravvisse non avendo leso organi vitali, mormorando ai soccorritori, con l’ironia e il sangue freddo che lo aveva sempre contraddistinto: “riconosco lo stile della Curia romana”.

 

Ciò che bruciò soprattutto a Paolo V fu che l’arma dell’interdetto era rimasta spuntata, e per sempre. Tutta la popolazione della Repubblica si era schierata con il governo e l’aggressione pontificia aveva talmente compattato popolo e nobiltà veneziana da mettere in secondo piano ogni altro alterco. Seguirono proposte di una lega santa contro la nuova “Ginevra”, nido di eretici e centro di sovversione della cristianità. Ma in realtà, nonostante le relazioni intrattenute dal Sarpi con illustri personalità protestanti, nonostante il continuo proselitismo degli ambasciatori stranieri a Venezia, nonostante l’abbandono di fra Paolo dal cattolicesimo posttridentino, l’idea di un passaggio di Venezia alla Riforma non fu mai presa in considerazione. Né Sarpi, Né Contarini avrebbero mai abbandonato il cattolicesimo, che volevano solo più puro e più vicino alle origini.

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