Serenissima – la bolgia italiana

Pochi anni prima in cui Colombo scoprì l’America, Costantinopoli cadde sotto il dominio turco segnando la fine dell’Impero Bizantino e gli stessi turchi si spingevano sempre più nel cuore dell’Europa, gli Stati italiani continuavano il loro infinito litigio a cui ora si era aggiunta anche Venezia.

 

Dopo la conquista dell’entroterra, Francesco Foscari fu eletto doge, uomo dall’eloquenza spettacolare e acutissima, espansionista, quarantanovenne e impegnato nel partito che voleva spingersi a fondo nelle vicende italiane, soprattutto contro i Visconti impegnati ancora una volta verso il dominio dell’Italia settentrionale. Il precedente doge, Tommaso Mocenigo, in punto di morte aveva diffidato nell’eleggerlo, considerandolo guerrafondaio, ma Venezia era ormai diventata una potenza italiana da cui difficilmente poteva esimersi. Se i suoi commerci con l’oriente rappresentavano il suo sistema venoso, i traffici fluviali e terrestri raffiguravano il suo sistema arterioso. Mentre Filippo Maria Visconti, fratello di Giangaleazzo, non meno spregiudicato, né meno ambizioso, aspirava al dominio di tutta l’Italia centro-settentrionale e mentre si registrava l’acquisto di Salonicco (seconda città dell’impero bizantino) e si preparava un accordo con i Turchi che avevano ripreso l’avanzata in Albania e nel Peloponeso, la Repubblica continuava a comportarsi con prudenza nelle tensioni italiane.

 

Francesco Foscari

 

Filippo Maria Visconti conquistò Imola e Faenza, mentre Venezia, alle prese con gli intrighi delle due famiglie spodestate, gli Scaligeri e i Carraresi, resisteva agli appelli di Firenze contro di lui. Le sconfitte di Zagonara, di Anghiari e di Faggiola, unite alle pressioni di capitani di ventura come Francesco Bussone detto il Carmagnola o Nicolò Piccinino, fecero decidere il Senato e nel 1425 la lega con Firenze fu cosa fatta. Da qui in poi ci fu una successione di campagne militari interrotte da brevissime paci. Guerra combattuta e guerra diplomatica si intersecarono in un mondo che applicava l’inganno come l’arte della politica più raffinata.

 

Venezia pagò carissima la sua partecipazione alle beghe italiane, in termini economici con i costi straordinari dei capitani mercenari, veri e propri imprenditori della guerra, cinici ed esosi. Dal fronte politico la guerra di Lombardia gli tolse notevoli risorse proprio quando i turchi premevano maggiormente sull’Europa e non ultimi i successi conseguiti nel fronte italiano gli aizzarono tanto odio e invidia da minimizzare le esperienze passate.

 

La prima fase della guerra si fermò nel 1426, quando Venezia conquistò la provincia e la città di Brescia. L’anno seguente si ricominciò e la pace del 1428 diede a Venezia la città di Bergamo e parte del cremonese. Le spese di guerra cominciarono ad essere insostenibili, ma Filippo Maria Visconti non mollò, cercando di attirare nel conflitto l’imperatore Sigismondo e nell’incoscienza pari all’ambizione dei signori italiani, anche i turchi, così che nel 1430 ripresero le ostilità. Genova, suddita dei Visconti, assalì e saccheggiò i feudi veneziani nell’Egeo, la reazione di Venezia fu feroce e con la flotta di Piero Loredan, distrusse completamente l’armata genovese vicino a Rapallo, nella riviera ligure. Allo stesso tempo gli ungheresi invasero il Friuli e il Carmagnola non riuscì a fermarli, o, in seguito ai resoconti successivi, non volle fermarli. Ci fu il sospetto, in seguito confermato, che si fosse messo agli ordini di Filippo Maria e facesse il doppio gioco. Cosa appurata dal consiglio dei Dieci che lo chiamò a Venezia e dopo essere stato arrestato, fu decapitato.

 

Monumento equestre del Gattamelata - Donatello

Monumento equestre del Gattamelata – Donatello

 

La sua esecuzione non mutò il corso degli eventi che videro, fra l’alternarsi delle vittorie e delle sconfitte, come in un gioco di scacchi, i genovesi allearsi con i veneziani, contro il Visconti, assieme all’imperatore Sigismondo. Francesco Sforza passò dai Visconti al soldo della Repubblica, al posto del Carmagnola, mentre Nicolò Piccinino, passato dai fiorentini ai Visconti, attaccò Brescia, che resistette in modo accanito. Sbarrò la strada da Verona a Brescia, ma i Veneziani, che nel frattempo avevano affidato un esercito a Erasmo da Narni, conosciuto come il Gattamelata, stratega geniale e soprattutto fedele al doge, sotto il suo comando compirono l’epico trasporto di una flotta di navi attraverso le montagne fra Venezia e il lago di Garda, scavalcando il monte Baldo su carri trainati da duemila buoi, da cui raggiunse Brescia. (Per la sua fedeltà e i suoi servizi, alla morte del Gattamelata la Repubblica gli eresse un monumento, commissionato a Donatello, che tutt’oggi si innalza nella piazza del Santo a Padova).

 

Lo stesso anno i veneziani comperarono Ravenna, ci fu la pace di Cremona del 1441 e il matrimonio fra Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti, unica erede naturale del duca di Milano. Le nozze dello Sforza con la figlia del Visconti non gli impedirono di assumere nel 1445 il comando supremo della lega antiviscontea, ma neanche di prestare un orecchio compiacente al suocero che fece lega con Carlo VII di Francia tentando invano di fargli prendere parte attiva alla baraonda italiana. Nel frattempo fra i Dieci non passò inosservata la corrispondenza fra lo Sforza e Filippo Maria, ma a differenza del Carmagnola, Francesco Sforza sgusciò via dalle mani dei Dieci evitando di finire decapitato fra Marco e Teodaro in piazzetta san Marco.

 

Nel 1447 morì Filippo Maria Visconti e venne proclamata la Repubblica Ambrosiana a Milano, mentre Venezia ne approfittò fulmineamente per annettersi Lodi, Piacenza, Crema, Caravaggio e la Ghiaradadda. Con inaudita ingenuità i milanesi affidarono il loro esercito a Francesco Sforza, che batté i veneziani a Caravaggio nel settembre 1448 e il mese successivo passò al servizio della Serenissima contro la Repubblica Ambrosiana. Dopo un anno e mezzo di trattative per l’eredità viscontea nella quale entrarono in campo Federico III d’Austria, Alfonso d’Aragona e Charles d’Orleans, nipote di Filippo Maria, il popolo milanese acclamò Francesco Sforza successore di Filippo Maria Visconti e contemporaneamente si verificò un rimescolamento di carte quando Venezia riconobbe lo Sforza signore di Milano e ruppe ogni alleanza con Firenze. Conseguentemente si formarono due leghe, una capeggiata da Venezia che per conto proprio non voleva rinunciare a Cremona, l’altra con a capo lo Sforza, Firenze, Genova, Mantova e il re di Francia.

 

Dominio veneziano nel 1454

 

Le alleanze tradizionali si rovesciarono e sancirono una nuova realtà per la Repubblica, nell’aprile 1454, con la pace di Lodi, i suoi confini andavano dall’Isonzo all’Adda, assieme a Ravenna, Crema e una buona parte del Trentino (oltre l’Istria, la Dalmazia e l’impero coloniale del Levante). Terre floride e produttive nelle quali Venezia poteva porre il suo futuro in quanto nel frattempo, il 20 maggio 1453 crollò definitivamente l’impero bizantino con la conquista di Costantinopoli da parte di Mehemed II.

 

Ma la bolgia italiana della guerra di Lombardia aveva talmente prosciugato le casse dello Stato da essere vicino alla bancarotta. Il debito pubblico era alle stelle tanto da imporre prestiti forzosi esorbitanti con interessi modesti o nulli attingendo a piene mani alle risorse delle banche che cominciarono a fallire. Guardando in faccia la realtà il senato si vide costretto ad emanare leggi straordinarie: tutte le entrate dello Stato sarebbero state destinate alle spese della guerra di Lombardia, la sospensione di tutti i salari degli uffici pubblici per un anno, tutti gli inquilini avrebbero dovuto corrispondere all’erario una tantum la somma pari alla metà degli affitti corrisposti e i proprietari la metà degli affitti percepiti, tutti i cittadini proprietari di terreni a est dell’Adige avrebbero dovuto versare allo Stato la metà delle rendite di un anno, seguiti dall’inasprimento dei dazi di entrata e le tasse sui noli e sul tonnellaggio delle navi.

 

Nel momento in cui sarebbe stato necessario fare il massimo sforzo per fermare il colpo mortale che minacciava la Repubblica nel Levante (fonte massima della sua ricchezza e della sua potenza) da parte del turco, Venezia si vide costretta a privare i suoi cittadini di un terzo o addiritura della metà delle loro rendite, ma anche del frutto del loro lavoro, per evitare la bancarotta.

I commenti sono chiusi.