Serenissima – Il Consiglio dei Dieci

Dopo che all’inizio del 1300 una guerra fra Venezia e Padova, violenta e sanguinosa, per questioni di argini e saline, fiaccò la Repubblica, le vicende dinastiche degli Estensi aprirono un conflitto ben più grave. Venezia preoccupata che Ferrara cercasse alleati esterni, vi inviò un contingente militare. Uno dei pretendenti al trono si rivolse al papa che acconsentì la sua ascesa, mentre il partito avverso cedette la città ai Veneziani che accettarono la donazione ricevuta. Piovvero le scomuniche e le maledizioni papali, che da Avignone mandò una feroce bolla contro la Repubblica, dove minacciava la scomunica di tutti i veneziani, il non diritto a fare testamento e la negazione di testimoni in ogni giudizio se non avessero restituito Ferrara entro 30 giorni.

 

E mentre il Maggior Consiglio replicava che il papa aveva pronunciato una condanna iniquamente e furiosamente il legato di Bologna emanava, a nome del papa, una crociata contro i Veneziani, a cui aderirono padovani, fiorentini, lucchesi, anconetani, tutti gli avversari di Venezia risposero all’appello sfogando odio, rivalità e invidie. La spregiudicatezza mercantile di Venezia l’aveva sempre fatta ignorare i divieti papali, il suo isolamento marittimo e la sfida contro i pregiudizi dell’epoca nei rapporti commerciali con il mondo mussulmano la facevano ampiamente sopravvivere. Purtroppo in quel frangente le operazioni militari furono disastrose e fu per merito di due ambasciatori che riannodarono i rapporti con Clemente V (Il pastor senza legge, di Dante) facendogli ritirare i suoi feroci propositi in cambio di un’enorme somma in fiorini d’oro di Firenze.

 

Gabriel Bella, La congiura di Bajamonte Tiepolo

La congiura di Bajamonte Tiepolo – Gabriel Bella

 

Questa vicenda fu l’origine del moto che mise a rischio Venezia di diventare una Signoria come tutti gli altri Stati italiani. Capo della congiura fu Baiamonte Tiepolo, figlio di Jacopo, nipote del doge Lorenzo, pronipote del doge Jacopo, apparentato con i Querini, consanguineo di principi e di re, chiamato il gran cavaliere. Il naufragio dell’impresa ferrarese, la feroce bolla papale furono l’occasione per formare attorno a sé una fazione guelfa contro quella ghibellina dell’allora doge Gradenigo. Anche parte della plebe, affascinata da un discendente di dogi famosi, ma forse più dal saccheggio delle case degli abbienti e della distruzione dei casellari giudiziari, lo seguì.

 

L’insurrezione fu programmata per il 14 giugno 1310, partendo da Rialto, da Marco Querini con i suoi figli per San Luca verso piazza San Marco, Baiamonte verso le Mercerie e Badoero Badoer, dal suo feudo di Peraga, nel padovano, doveva fornire i rincalzi. Sfiga volle che quella notte scoppiò un furibondo temporale che si protrasse anche all’alba. Il grido “libertà!” dei congiurati non fu udito da nessuno, i rincalzi di Badoer si impantanarono nella campagna, mentre il doge Gradenigo, informato della congiura, aveva dato disposizioni alle forze armate, anche a Chioggia, Torcello e Murano chiedendo rinforzi. Marco Querini fu subito ucciso e le sue forze disperse, mentre Baiamonte, in campo San Zulian, fu immediatamente attaccato. Nella mischia, mentre le forze si contrastavano, una donna, Giustina Rossi, richiamata dal fragore, aprì la finestra e inavvertitamente fece cadere dal davanzale un grosso mortaio di pietra (quello per pestare lo stoccafisso) che colpì, accoppandolo, il portabandiera del Baiamonte, provocando lo sconcerto dei congiurati che fuggirono. Badoero Badoer, fra Padova e Venezia venne affrontato dal podestà di Chioggia, catturato e portato a Venezia. Ma Baiamonte non cedette, capitolò solo dopo che il Maggior Consiglio permise a lui e ai suoi di andarsene in esilio in Schiavonia (Slavonia).

 

Monumento a Giustina Rossi (la vecia del morter)

 

Tutti i congiurati facenti parte del Maggior Consiglio furono confinati, a patto che non fossero città in guerra con Venezia. Gli altri vennero amnistiati, purché facessero atto di sottomissione e restituissero ciò che avevano saccheggiato da uffici pubblici e case private. Baiamonte se la cavò bene, mentre Badoero Badoer fu condannato a morte e decapitato. Alcuni “popolari” che si erano distinti durante l’insurrezione furono eletti, assieme ai loro eredi, nel Maggior Consiglio. Giustina Rossi si limitò a chiedere che né a lei, né ai suoi discendenti fosse cresciuto l’affitto di casa e di esporre annualmente uno stendardo commemorativo, modestissime richieste che furono accolte fino al 1797. L’ultimo stendardo è conservato attualmente nel museo Corrier.

 

Baiamonte non ubbidì agli obblighi infieritogli e si rifugiò a Padova dove tenne riunioni politiche ad alto livello, sostenuto da molti padovani importanti, fra cui Enrico Scrovegno, figlio del ricco usuraio la cui munificenza è rimasta con la famosa cappella e gli affreschi di Giotto. Ma il suo maggior sostenitore fu Rizzardo da Camino, signore di Treviso, dal quale ci vollero anni di negoziati e ambasciate per snidarlo. Ma neppure dalla Dalmazia il Baiamonte rimase tranquillo, mandando regolarmente suoi emissari a Venezia per sobillare il malcontento, anche se spesso ne cadeva qualcuno ucciso dagli agenti segreti veneziani. Nel 1328 si scoprì una nuova congiura collegata con gli esiliati, i capi furono giustiziati, ma il Baiamonte continuava ad alimentare tensioni, così che il Consiglio dei Dieci diede mandato al doge di catturarlo e ucciderlo, ovunque si trovasse. Non avendone più avuto notizie si suppone che la missione fu portata a termine.

 

La nascita del Consiglio dei Dieci fu la conseguenza diretta della congiura. Giunte e commissioni a Venezia ce n’erano già state, ma questa venne creata dal Maggior Consiglio il 10 luglio 1310 con competenza straordinaria sui congiurati e avrebbe dovuto essere a termine, il perdurare delle tensioni rinnovò il mandato di due mesi in due mesi, fino a ché nel 1311 fu confermato per cinque anni. Il 20 luglio 1335 il Consiglio dei Dieci divenne un’istituzione permanente che durò fino alla caduta della Repubblica, con attribuzioni via, via, estese, tanto da giustificarne l’esistenza anche dopo che i congiurati erano morti da un pezzo.

 

La sala del Consiglio di Dieci in Palazzo Ducale a Venezia

La sala del Consiglio dei Dieci in Palazzo Ducale a Venezia – Gabriel Bella

 

La leggenda nera che li circonda può essere paragonata solo a quella dell’inquisizione spagnola. Alimentata dalla polemica illuminista prima della caduta e dalla propaganda francese dopo, fu divulgata da scrittori, musicisti e anche qualche storico. In realtà, l’amore romantico per il tenebroso gli conferì un’aurea di azioni operate nella segretezza, che vennero svolte allo stesso modo da tutti gli Stati europei, nessun principe, nessun sistema ne fu esente. Esecuzioni capitali, preordinate in nome della “ragion di Stato”, nessun regime se ne è mai sottratto, dai tempi remoti, ai giorni nostri.

 

La singolarità risedette nella variegatissima diversità di compiti e di funzioni. Da commissione inquirente nei confronti dei congiurati del 1310, divenne tribunale permanente con giurisdizione sui reati politici e non politici, organo di polizia, centrale di controspionaggio e di difesa interna, ma anche organo legislativo e assemblea politica. L’evoluzione delle funzioni portò anche ad un allargamento della composizione, a un’estensione dei poteri che degenerò pure nell’abuso. Fu merito della classe politica veneziana ridimensionarlo e ricondurlo nell’alveo della costituzionalità.

 

Nonostante ciò che fu scritto, un’altra singolarità dei Dieci fu lo scrupolo legalitario nei processi, del tutto insolito nei tempi in cui l’arbitrio era metodo del potere di tutti gli Stati italiani. Uno scrupolo che portò una serie di regole, norme procedurali e garanzie completamente sconosciute nella gran parte degli altri paesi. Composto da diciassette membri (i Dieci, i sei consiglieri dogali e il doge che presiedeva) seguiva un meccanismo aperto. Aprire un’istruttoria esigeva maggioranze elevate (cinque sesti per le denunce anonime). Per il rinvio a giudizio prevaleva la maggioranza. Senza numero legale, senza maggioranza il procedimento veniva annullato. Per la sentenza e la pena venivano seguiti criteri ancor più complessi, con quattro ballottazioni. La garanzia più importante era la presenza di uno dei tre avogadori di Comun, magistrati che avevano il potere di impugnare o sospendere i processi dei Dieci.

 

Fra i loro compiti c’era la vigilanza degli abusi, nel patriziato sorvegliare la solidarietà di classe, cioè evitare che qualcuno imponesse il proprio potere sugli altri e nella difesa del popolo dagli abusi dei nobili. I Dieci si consideravano i difensori della quiete e libertà dei sudditi proteggendoli dall’autorità dei prepotenti, quasi un correttivo alla supremazia sociale del patriziato che contribuì a spiegare l’impopolarità dei Dieci nel patriziato stesso.

I commenti sono chiusi.