Le origini del terrorismo in Italia – prima parte –

Gli anni 1960 -1970. Le prime tensioni sociali.

Raskòlnikov sorrise di nuovo. Aveva capito subito come
stavano le cose e dove volevano portarlo; e ricordava il suo
articolo. Decise di accettare la sfida.
«Quel che dice il mio articolo non è precisamente questo,»
prese a dire in tono semplice e modesto. «D’altronde, riconosco
che ne avete esposto il contenuto quasi fedelmente e perfino, se
volete, del tutto fedelmente…» era come se gli facesse piacere
ammettere quest’ultima possibilità. «L’unica differenza è che io
non sostengo affatto che gli uomini straordinari debbano
necessariamente o siano costretti a compiere iniquità d’ogni
specie, come voi dite. Fra l’altro, credo che un articolo del
genere non l’avrebbero nemmeno lasciato pubblicare. Io ho
semplicemente formulato l’ipotesi che un uomo “straordinario”
abbia il diritto… non un diritto ufficiale, beninteso… di
permettere alla propria coscienza di scavalcare certi… certi
ostacoli, e ciò esclusivamente nel caso in cui l’esecuzione di un
suo progetto (talvolta, magari, salutare per l’intera umanità) lo
richieda.»

“Delitto e castigo” Fëdor Dostoevskij 1866 Russia

[“Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” Elio Petri 1970 Italia]

 
Prima degli anni di piombo

Cominciamo con lo sfatare un mito. E cioè che la strage di piazza Fontana sia stato l’evento che inaugurò quello che — per prassi giornalistica e storica — viene definito il periodo della così detta “strategia della tensione”. La realtà sociale del nostro paese era già scossa da avvenimenti di altissima tensione sociale, di scontri di piazza e contrapposizione politica fin dai primi anni 60. Se non fu un evento isolato in mezzo ad una pacifica convivenza sociale, fu di certo il più grave ed il più efferato episodio criminale in Italia dal dopoguerra al 1969. Ed è per questo che da un punto di vista simbolico viene visto come l’evento emblematico e “premonitore” di sventure.


Gli anni 60 furono un periodo di clamorosa trasformazione sociale ed economica sia in Europa che in Italia. Soprattutto in Italia. Non bisogna pensare che, con la fine della seconda guerra mondiale e di conseguenza del regime fascista, si sviluppò fin da subito nella nostra società una realtà civile come la conosciamo oggi; insomma, non ci fu un “prima e un dopo” facilmente individuabile e ristretto nel tempo. Molte delle persone che svolgevano ruoli importanti (ma non solo) nella classe dirigente, nei tribunali, nelle scuole, avevano vissuto, studiato e si erano formate culturalmente durante il regime Mussoliniano. Non era — e non poteva essere — una questione solo di “giustizia penale” come l’amnistia Togliatti rese subito palese; il fascismo era durato troppo a lungo ed ebbe troppo seguito per poter voltare pagina in poco tempo. A complicare le cose (ma in senso inverso a rendere un po’ meno lento il passaggio) ci fu la repentina trasformazione di un paese completamente agricolo verso una società basata su un nuovo capitalismo industriale, specialmente al nord. Il fascismo che crebbe e si consolidò in una nazione agraria, ritrovò nelle grandi città industrializzate e nella nuova società consumistica nemici insuperabili.


Ovviamente questa trasformazione non avvenne indolore. Lo squilibrio tra nord e sud del paese e tra città e periferia degradata rinnovò la conflittualità declinandola in modo diverso. Da una parte il problema “casa” e le periferie abbandonate (in certi posti dell’Italia vere e proprie enormi baraccopoli) dall’altra una nuova generazione di giovani che — per la prima volta — conosceva la ricchezza materiale ed intellettuale e quindi si fece portatrice di nuove esigenze di libertà e progresso. A questi sconvolgimenti sociali, economici e culturali si intrecciò la questione ancora presente e molto sentita dello scontro politico fascismo/anti-fascismo (non destra/sinistra, non conservatori/progressisti, non fascisti/comunisti). Scontro che in modi diversi e meno forti avvenne anche in altre nazioni ma che nella nostra — per ovvie ragioni — trascinò in pratica tutta la società civile ad un elevata ed insopportabile tensione politica.

 

milano

[“Corriere della Sera” Piazza Fontana]

 



Il governo del presidente


Dopo una relativa tregua dovuta più ad una crisi di rigetto della violenza in sé che non ad una vera e sentita riappacificazione, la dialettica politica nel finire degli anni 50 segna un mutamento di clima. Siamo nell’estate 1960, a Roma sono in programma le Olimpiadi e il PIL viaggia al 8,1%.


Dopo la crisi del governo di Antonio Segni, l’esponente della sinistra della Democrazia Cristiana Fernando Tambroni ricevette l’incarico di formare il governo dal presidente Giovanni Gronchi. Il governo è un monocolore DC e viene definito il “governo del presidente” per affermarne la natura “forte” ed emergenziale. Durante il suo insediamento riceve i voti determinanti per la fiducia dal MSI. E’ la prima volta a livello nazionale che i post-fascisti hanno un peso così rilevante; localmente invece non sono rari accordi di vario genere tra DC e MSI. Ma a livello simbolico non è evidentemente la stessa cosa. Il modello centrista italiano incomincia la sua crisi che diventa strutturale quando, superata l’emergenza del dopoguerra, si capisce che non si riesce (o non si vuole) formare due gruppi dirigenti e con rappresentanza politica ai “lati” della DC che possano garantire una vera alternanza politica e che così possano dare risposte alle nuove esigenze venute dal mutamento improvviso di cultura e veri e propri stili di vita.


A destra non si può e non si deve andare perché lì c’è solo la riedizione della immane tragedia degli anni 30. A sinistra c’è il più grande Partito Comunista in Europa e, dopo gli accordi di Jalta, si deve accontentare di governi locali; i socialisti non hanno ancora la forza necessaria per imporsi.

 

[“La notte della repubblica” Sergio Zavoli]

Le reazioni a questo governo e alla scelta di approvare e far svolgere a Genova il sesto congresso del Movimento Sociale Italiano si materializzano in manifestazioni di piazza nella stessa città di Genova e anche, tra le altre, a Reggio Emilia, Roma, Palermo, Licata, Catania, Napoli. Gli scontri sono violentissimi. Bisogna tener conto che un certo tipo di autoritarismo ancora permea alcune zone della società italiana per le cause sopra ricordate; nelle fabbriche la libertà sindacale è ridotta e spesso gli scioperi finiscono con i lavoratori presi a manganellate (non solo dalla polizia), nelle scuole e perfino nelle famiglie le generazioni a confronto si danno “battaglia”. L’ordine pubblico è tenuto da membri e capi formati durante il regime e con una struttura non del tutto modernizzata e trasparente come è oggi. 

[“I ribelli” Mimmo Calopresti]
 Risultato: 11 morti, 5 a Reggio Emilia dove ci furono i fatti più gravi; a Genova in piazza manifestarono 100 mila persone. Dopo questi tragici eventi il governo Tambroni si dimette il 26 luglio 1960.

Il centro sinistra

moro

[“Domenica del Corriere” La svolta a sinistra]
Il primo governo di centro sinistra “organico” (così chiamato perché formato anche dai socialisti e che non ebbe solo un appoggio esterno) fu il primo governo di Aldo Moro, esponente dell’area progressista DC, ed ottenne la fiducia il 4 dicembre 1963. Il vicepresidente fu Pietro Nenni, massimo esponente del socialismo italiano. Questa “svolta a sinistra” non bastò a calmare gli animi di una società che si avviava sempre più ad una contrapposizione violenta. Nei posti di lavoro i sindacati — anche quelli più a sinistra e battaglieri come la CGIL — non riuscirono ad arrestare le nuove forme spontaneiste di lotta e la formazione di gruppi e movimenti estremisti che germinavano intorno ai luoghi di lavoro. Lo stesso avvenne nelle facoltà universitarie.


[“La notte della repubblica” Sergio Zavoli]


Intanto i servizi segreti — si scoprì dopo — cominciarono una massiccia schedatura di tutti i politici, giornalisti, sindacalisti, personaggi importanti in genere, portata avanti dal SIFAR. A capo di quest’ufficio venne messo dal 1955 il generale Giovanni De Lorenzo, che subì più avanti un’indagine parlamentare per i fatti del piano SOLO (una specie di piano “difensivo” militare dell’arma dei carabinieri che sarebbe dovuto scattare in caso di tumulti e situazioni sociali pericolose). Il SIFAR verrà sciolto nel 65, sostituito dal SID (Servizio Informazioni Difesa). Come si seppe dopo, alcuni sindacalisti e “leader” dei lavoratori — tramite le varie organizzazioni — comprarono appartamenti vuoti da utilizzare in caso di eventi di natura eversiva per poter continuare il loro lavoro di tutela dei lavoratori. Insomma, il clima prima del maggio francese del 68, del biennio 69-70 — che vide una proliferazione di movimenti e gruppi extraparlamentari — era di estrema tensione sociale. Era una tensione strisciante ma pronta ad esplodere, come in effetti fu. Per quanto riguarda la politica, il 26 luglio 1964 cade il governo Moro entrato in crisi sulla questione delle sovvenzioni alle scuole private. Il nuovo presidente della repubblica viene eletto a dicembre ed è Giuseppe Saragat.

 



A grandi passi verso l’inevitabile


Gli anni di “avvicinamento” all’implosione sociale sono di difficile lettura anche a livello culturale. I modelli giovanili richiamano ad un vero e proprio stravolgimento dell’essere individuale, e quindi non solo socialmente. Sono gli anni in cui alla comunicazione di massa della televisione che — in qualche modo — “organizza” e plasma il pensiero per costruire il “cittadino comune” si contrappongono modelli antagonisti di segno uguale e contrario che diventano vere e proprie mode (nel senso classico del termine); i beatles, i rolling stones, imprimono un ideale di libertà senza responsabilità che fatalmente irrompe in una società non ancora del tutto liberale. Le scosse culturali arrivano perfino dentro al nucleo familiare dove regnano ancora autorità e divieti bigotti. Marilyn Monroe ma soprattutto Brigitte Bardot, parigina giramondo, sono l’emblema della voglia di indipendenza delle giovani ragazze e in genere del mondo femminile oppresso sistematicamente in ogni luogo sociale fin dentro le mura di casa. Questi due mondi — il conservatorismo responsabile ed autoritario da una parte e dall’altra la libertà individuale illimitata e ribellistica — invece che mischiarsi ed esprimere una sintesi che possa espellere le parti più antisociali si scontrano prima “sottotraccia”, poi politicamente e infine nelle strade.


Anche la politica internazionale getta benzina sul fuoco. L’Italia — nel mediterraneo — è circondata da regimi autoritari e antidemocratici, se non vere e proprie riedizioni del fascismo italiano. In Spagna c’è il franchismo, in Portogallo Salazar, nel 1967 in Grecia c’è un colpo di stato militare che darà vita alla “dittatura dei colonnelli” di Georgios Papadopoulos. Sono gli anni della guerra in Vientnam che vide l’ascesa del movimento pacifista americano, dell’invasione sovietica in Cecoslovacchia che mise fine alla “primavera di Praga”. Nel 1966 Mao Zedong organizza la “rivoluzione culturale” cinese che verrà presa ad esempio dai gruppi rivoluzionari della sinistra extra-parlamentare e spaventerà le democrazie liberali occidentali. In questo divenire di movimenti e sommovimenti la disorientata società italiana traballa di fronte alle sollecitazioni politico-culturali che arrivano da ogni parte del mondo.


E’ in questa pesante atmosfera che si arriva a Piazza Fontana, strage in cui furono uccise 17 persone. Ma forse non tutti sanno che quella bomba non fu la sola ad esplodere in quel 12 dicembre 1969: nello stesso giorno e più o meno alla stessa ora esplosero altre tre bombe a Roma che provocarono 16 feriti e a Milano fu trovato un altro ordigno (non esploso) nella sede milanese della Banca Commerciale Italiana, in piazza della Scala.


Come detto prima, il biennio 69-70 vide la nascita di una pletora di movimenti extraparlamentari di estrema destra, estrema sinistra e anarchici che propugnarono senza mezzi termini la lotta e lo scontro come dialettica politica. I partiti, i sindacati, non riuscirono ad “istituzionalizzare” la protesta incanalandola su binari democratici. Anzi, questi movimenti (sia di destra che di sinistra) ebbero come acerrimi nemici proprio l’area istituzionale culturalmente più vicina ai loro ideali, ritenendola traditrice degli “antichi valori” di cui questi estremisti si ritenevano i veri custodi. Intanto in Via Lorenteggio a Milano nel 1970 compaiono dei volantini con una stella a cinque punte chiusa dentro un cerchio. Il primo nucleo delle brigate rosse si fa conoscere dalla società italiana.

I commenti sono chiusi.