La III Guerra Mondiale . Parte Terza

Articolo di Buddenbrook. Ricevo e posto.

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6) Non si scherza più

“La lotta alle cause della paura produce a sua volta paura” Lars Svendsen

In Italia spesso si parla di “strategia della tensione” quando ci si riferisce ad un determinato periodo storico — anche indicato come “anni di piombo”, tracciabile a grandi linee a partire dall’anno 1969 al 1981 — per indicare l’uso da parte del potere della paura per attuare una certa visione politica. Il termine “potere” qui è indicato nella sua estensione massima, estensione che va da autorità pubbliche istituzionali a sconosciuti gruppi di potere e di lobby dell’elite sociale. Nel nostro paese non si è mai capito chi fossero i colpevoli politici o chi stesse dietro a chi o a cosa. La verità giudiziaria ha portato a brandelli di verità penale. La verità storica non si è mai poggiata su solide basi; siano esse giudiziarie o di archivio. Quello che conta è che noi italiani siamo a conoscenza della possibilità di utilizzare la paura e il terrore a scopo politico. E di farlo in modo criminale.

La successione degli eventi nei Balcani dopo la manifestazione di Belgrado è la traduzione della “dottrina” astratta nella politica reale. La cosa che sconvolge è la limpidezza e linearità degli eventi se guardati col senno di poi. Qui non si tratta di pensare ad una concezione della storia puramente “meccanicistica” ma di poter ipotizzare che gli attori in causa erano consapevoli che — senza presa di coscienza comune del gruppo dirigente locale o senza un deciso intervento estero USA, UE o Russo — la questione non si poteva che avviare fatalmente verso una svolta militare.

Ne abbiamo una prova plastica nella riunione tra i rappresentanti politici delle varie regioni con i capi militari federali della Jugoslavia. Dopo le manifestazioni, le proteste e gli scioperi, Borisav Jovic (in accordo con Milosevic) propone lo stato militare d’emergenza. Ha bisogno di almeno cinque voti; il quorum per dare il potere di “ordine pubblico” all’esercito è quello.

Si “fronteggiano”, politici e militari, durante un summit che definire carico di tensione non rende pienamente l’idea. Il delegato del Kosovo e quello della Bosnia sono quelli che più hanno da perdere da una escalation di violenza etnica, avendo nei loro territori la mescolanza maggiore di etnie e gruppi religiosi diversi. Alla fine si decide di non decidere e Milosevic, nei giorni seguenti, continua a pressare per un intervento armato interno atto a ristabilire il potere sovrano della Jugoslavia unita. Alleati naturali del leader serbo troviamo i militari capeggiati dal Generale Veljko Kadijevic.

Quindi… i delegati regionali durante la riunione non hanno una visione comune. Milosevic sconfessa il ruolo della “burocrazia che non sa decidere”. Il Generale Kadijevic durante uno dei colloqui avvenuto nei giorni dopo il primo incontro si fa scappare — forte dell’appoggio della Serbia — una frase da repertorio classico delle crisi sociali e politiche: “Se non vi decidete, saremo noi ad agire.”

E cosa può mai accadere dopo questi eventi?
Questo…

[ATTENZIONE: immagini forti dal minuto 1:10 a 1:20]

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7) La parola alle armi

Comincia così questa orribile guerra civile. Nel silenzio assordante della comunità internazionale. Con le varie popolazioni nazionali ed etniche che si guardano tra di loro con sospetto. Nella speranza che non sia possibile che si scateni una guerra civile nella moderna Europa. Che alla fine, sì, certo, dopo tutto si metteranno d’accordo.

Rispettando rigorosamente l’ordine cronologico, la prima crisi e la conseguente battaglia avviene ai confini sloveni. La guerra tra l’armata federale jugoslava e la Slovenia è conosciuta come la “guerra dei dieci giorni”. Dopo la dichiarazione di indipendenza slovena il 25 Giugno 1991, il Presidente Milan Kucan annuncia che la nazione è disposta a difendere i propri confini anche con la forza. In realtà a Milosevic questa guerra non interessa non essendoci minoranze serbe di un certo peso nella nuova nazione indipendente. Vengono messi in piedi alcuni battaglioni con riservisti e reclute; con numerosi tank i militari federali si avviano ai confini della Slovenia cercando di unirsi ai compagni residenti nel territorio. Questo non accade perché le forze di polizia e dell’esercito passato dalla parte di Kucan, con una semplice difesa armata, allontana i combattenti jugoslavi.

Questa non è ancora guerra civile nelle sue forme più devastanti. La Slovenia, regione relativamente ricca del nord, si “sgancia” con disinteresse serbo. C’è da dire anche che Milosevic vuole ritardare i combattimenti che ritiene — per lui e per i serbi — importanti perché la Russia ha già fatto sapere che non interverrà in aiuto della Jugoslavia anche se gli americani e gli europei decidessero un’azione armata o di polizia internazionale dei caschi blu dell’ONU. Insomma, cinicamente verrebbe da dire, i serbi e i militari jugoslavi (da sempre in maggioranza serba a livello numerico oltre che politico) non vogliono “giocarsi la carta militare” in assenza di una vera contropartita. In Slovenia non c’è.

Anzi, la ritirata viene auspicata dai serbi in ottica strategica per poi rivendicare maggiori diritti in regioni ben più importanti. E soprattutto abitate da serbi. Si arriva così alla fine della guerra slovena con un accordo tra le parti e le istituzioni internazionali di un “cessate il fuoco” e “congelamento” della situazione attuale per la durata di tre mesi. La battaglia ha tratti spesso tragicamente incoerenti, e viene combattuta da molti giovani e coscritti dell’armata jugoslava senza addestramento adeguato, senza sapere perché. Si arriva alla situazione grottesca in cui il capo dell’esercito telefona a Belgrado per chiedere se deve considerarsi in guerra o no. Altre situazioni sono invece tragicamente assurde: come l’elicottero che, mentre porta aiuti e viveri nel paese, viene abbattuto dalle forze di polizia e militari slovene condotto da… uno sloveno che prestava servizio nell’esercito.

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8) La guerra serbo-croata.

In Slovenia non ci sono interessi etnici o materiali serbi. In Croazia, sì. Ed è proprio qui che l’esercito viene utilizzato a pieno regime la prima volta. E’ qui che si materializza il veleno dell’odio etnico, già abbondantemente presente a livello ideologico. Al potere c’è Franjo Tudman, vincitore delle elezioni croate del 22 Aprile 1990 con il partito nazionalista HDZ (Hrvatska Demokratska Zajednica) che arriva al 41,9% dei voti. Si arriva ad un muro contro muro tra serbi e croati.

Non starò a giustificare le successive violenze, né cercherò di convincere con le mie tesi della ragionevolezza di una parte nei confronti dell’altra. Voglio solo far presente che entrambe le parti — specificamente a questo argomento e senza guardare al passato — hanno le loro ragioni; sono logiche e comprensibili. Sfortunatamente inconciliabili senza dialogo. Incompatibili senza politica che media gli interessi conflittuali. E infatti la politica nei Balcani ha abdicato da un pezzo. Come si nota anche dalle parole di Gianni De Michelis, l’allora Ministro degli Esteri.

La comunità europea si sveglia dal torpore. La prima ad entrare nel dibattito in maniera ferma e diretta è la nuova Germania unita che vuole ritagliarsi subito il ruolo di potenza egemone nel continente a spese di Francia e Italia. I diplomatici tedeschi prendono subito le parti della Croazia indipendente. Anche la diplomazia del Vaticano riconosce subito lo stato indipendente della Croazia. In Europa le divergenze sulla linea politica tedesca sono numerose; Francia, UK e Italia sono neutrali se non apertamente dalla parte serba; gli USA — il cui presidente è George Bush Senior — in un primo momento non si interessa dato che anche la Russia si defila (a parte qualche prova di dialogo tentato da Michail Gorbacev).

Qualche vittoria diplomatica arriva al massimo ad ottenere sporadici “cessate il fuoco” di poca importanza. Ad agosto del 1991 Tudman ricorre ad un ultimatum. L’esercito federale — ormai quasi del tutto di parte serba — deve ritirare i propri uomini all’interno delle caserme locali croate; inoltre il governo croato annuncia che è pronto ad utilizzare le forze armate per la attuazione della disposizione e la difesa dei propri confini. Milosevic non aspettava altro.

Lo riconoscete?

Sì, è lui: Ratko Mladic. Insieme alle truppe regolari — per quanto questo termine sia del tutto inappropriato — degli stati belligeranti si mescolano milizie paramilitari completamente fuori controllo. Forze di assalto composte da fondamentalisti ideologizzati, ex soldati, criminali comuni; non riconoscono nessun codice militare. Armate e violente.

Come questa.

Lo stato maggiore serbo decide di attaccare Vukovar con armi pesanti. La Croazia lo sa e dispone quasi tutte le sue forze a difesa della città. E’ la prima volta, dopo la II Guerra Mondiale, che in Europa si combattono due eserciti nemici. Siamo nel Luglio del 1991; la guerra diventa realtà e a Vokovar si vedono scene che non si vedevano dal 1945. L’assedio alla città da parte dell’Armata Federale Jugoslava — aiutata internamente da gruppi paramilitari serbi — diventa l’inizio delle ostilità che daranno vita ad uno dei più terribili scontri civili del secolo.

Nel disinteresse imbarazzato della comunità europea, degli UK, USA e Russia, cominciano i massacri. La città di Vukovar diventa un ammasso di macerie.

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