La globalizzazione

Il modello economico e sociale della globalizzazione — per dirla in termini semplici — è stato il modo di reagire (più o meno consapevolmente) delle classi dirigenti all’aumento della demografia mondiale. Ha portato effetti positivi tra i quali il più importante: l’innalzamento dello stile di vita di un’immensa porzione di abitanti della terra. Il processo non è stato indolore ed ha portato con sé conseguenze culturali di difficile interpretazione, come il livellamento dei gusti e delle idee.

Storicamente — se si vuole dare una nascita ideologica — è nata da un modello liberista ed economico venutosi a sviluppare dalla consapevolezza che la struttura economica e finanziaria pre-globalizzazione non era adatta a sei miliardi di persone. Anche se criticabili e poco poetiche le multinazionali e i centri di grande distribuzione alimentare erano condizione essenziale per “dare lavoro e da mangiare” a più gente possibile. L’alternativa sarebbe stata disastrosa: le pressioni di macroaree non alfabetizzate e povere avrebbero spinto verso le zone più ricche creando una insostenibile pressione ai confini di quest’ultime.

Nei primi anni del nuovo secolo le sperequazioni createsi dall’idea originaria del modello liberista vennero ereditate dalle élite progressiste in una sorta di passaggio di mano del problema demografico. Il modello originario venne leggermente modificato per non tornare indietro in un mondo fatto di confini nazionali e di divisioni che avrebbe certamente buttato via il buono che la globalizzazione economica e finanziaria aveva portato. Quindi si cercò di mettere paletti e regole alla finanza ed aumentare il peso dello stato (l’immenso flusso di denaro che i repubblicani e i democratici immisero nell’economia americana del dopo Lehman) e si cercò di eliminare i rimasugli storici dei nazionalismi con l’europa unita per rendere più egalitario il peso del dumping sociale in Europa.

Questo processo sembra oggi messo in crisi proprio nei luoghi dove tutto ha avuto inizio: in USA e nell’Europa Unita. Populismi ed estremismi di ogni colore ed intensità dimostrano che gli effetti negativi potrebbero superare, nella percezione dell’individuo, gli effetti positivi. Questo in parte è dovuto alla condizione umana che vede le conquiste già acquisite in modo meno evidente delle eventuali future paure.

Ma se si fermasse l’analisi alla sola questione economica si farebbe una sbaglio enorme. Le paure dei cittadini dell’ex primo mondo di perdere ricchezza e sicurezza perché minacciati fisicamente ed economicamente dai paesi ex poveri è “totale”; totale in un senso che comprende l’esistenza, il modo di vivere, lavorare e di socializzare del cittadino del mondo. In primo luogo questo spaesamento si è verificato nelle metropoli; è proprio qui che la globalizzazione ha mostrato tutto il suo carattere innovativo: ogni grande città è diventata un mondo in miniatura, con tutte le sue diversità e tutti i suoi conflitti. In pratica c’è stato un mostruoso aumento di libertà (libertà nel senso proprio, come libertà di scelta) dove accanto alla pizzeria si poteva mangiare afgano o indiano, dove anche il lavoratore medio poteva comprarsi una macchina giapponese oppure un libro di uno scrittore marocchino sconosciuto. Aveva sia l’opportunità ideale che concreta; le merci, saltando confini e senza costosi ed anacronistici pit stop doganali, arrivavano velocemente e a poco prezzo. Ma gli aspetti negativi (o quelli percepiti come tali) sono rimasti uguali in tutta la sua interezza e potenza. I conflitti etnici, religiosi, sono apparsi dalle tv direttamente nelle nostre vite, nelle nostre strade; la libertà e le nuove opportunità che molte persone straniere hanno portato si sono annullate con l’odio e il rancore coltivato da anni di privazione e guerre tribali di altre persone straniere.

Adesso, con la élite progressista in crisi, sarebbe stato il turno delle destre liberiste. Le fasi della politica mondiale sono come “ondate” che si susseguono tra questi due grossi poli. E’ probabile che di tanto in tanto le grosse crisi ricadano su una o l’altra élite; se una delle due non è in grado o preparata ad affrontare il cambiamento non entra la sua parte opposta “moderata” ma entra in scena la sua controparte “radicale”. Adesso i populismi di destra hanno preso definitivamente il posto della parte liberal-liberista moderata e dove non è forte il radicalismo nazionalista agiscono altri populismi di diversa estrazione ideologica, come Podemos in Spagna o Tsipras in Grecia (anche se quest’ultimo ha preso un aspetto via via più istituzionale).

Che le paure del cittadino del mondo non siano solo economiche ma anche di altra natura lo dimostrano plasticamente vari fenomeni come — primo tra tutti — il terrorismo fanatico religioso, ma insieme ad esso difficoltà sociali come il passaggio dal lavoro stabile (economicamente e territorialmente) al lavoro flessibile, la crisi della socialità politica generale che si rispecchia nei partiti e nei sindacati. In pratica alla immensa libertà individuale e ad una circolazione mai avvenuta delle idee a livello planetario non è corrisposta una costruzione sociale che garantisse un minimo di sicurezza economica ed esistenziale dell’individuo.

Che fare? Tornare indietro non si può. E’ anti-economico. Andare ancora più avanti accelerando è ancora più rischioso.
A complicare ulteriormente la faccenda è il fatto che questo passaggio storico avviene non con le crisi delle ideologie (come molti dicono) ma nel pieno dispiegarsi delle ideologie passate che si ripropongono affermando le solite “finte verità”. Affrontare modelli economici nuovi con ideologie superate è sicuramente lo scenario che porta al fallimento. Ed è però lo scenario attuale.

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