Il fuco quasi fico.

Originariamente il senso era adatto al momento storico, ottimo per una società come quella dell’antica Roma.

Il concetto di fondo in cui quello che fa male alla comunità non può giovare al singolo è infatti perfettamente sovrapponibile a quel che sappiamo della storia e dei costumi dell’antica Roma: una civiltà nata e cresciuta sul concetto dell’unità e dell’appartenenza non poteva che richiamarsi a quel genere di struttura, quella dell’alveare.

La Roma repubblicana e quella imperiale devono a questi precetti la forza che li ha portati a conquistare il mondo allora conosciuto… cardini che impregnavano ogni aspetto di quella società, dall’inquadramento dell’esercito agli aspetti più privati della vita dei singoli.

Nulla di strano quindi se un certo politico giunto al potere in un epoca di tumulti decise di recuperare, fra i tanti lasciti dell’antica Roma non solo il famoso saluto e le insegne ma anche e soprattutto quella certa visione e quell’inquadramento.

Questa scelta produsse non pochi lati negativi in quanto una morale legittima ed addirittura all’avanguardia duemila anni prima strideva ed appariva inattuabile, troppo antiquata per essere applicata seriamente due millenni dopo.

Scalfaro, che fù giudice durante il ventennio, si trovò spesso a fare i conti con quella certa visione “ad alveare” della società… quel modo di vedere il tutto per cui lo Stato (o meglio “l’impero”) è la colonna portante ed i cittadini sono figure secondarie che hanno diritti solo come “luce riflessa” in funzione dell’utilità di tali diritti per lo stato stesso.

La libertà dell’individuo non come libertà personale dell’individuo ma come privilegio concesso dallo Stato all’individuo, privilegio che lo Stato può revocare in qualsiasi momento, per qualsiasi ragione semplicemente perché, quando così decide, quella cosa non gli conviene più.

È vero, anche nella democrazia esistono una maggioranza ed una minoranza, ed il detto “ubi maior, minor cessat” è ancora valido, ma la differenza è che nella visione democratica delle cose alcuni diritti ed alcune prerogative sancite dalla costituzione (e dalla carta dei diritti dell’uomo) sono proprie dell’individuo e come tali lo stato non ha il potere di sospenderle o negarle… nel fascismo tu come individuo appartieni allo Stato e lo Stato può fare di te quel che crede.

La visione di uno Stato ad alveare con migliaia di operai che si fanno in quattro da quando nascono a quando muoiono indefessamente per un più alto bene che è quello dell’alveare (la comunità) è infatti perfetta per uno stato quale potrebbe essere quello nordcoreano ma non è applicabile in un contesto civile in cui non esistono più gli schiavi ed ai singoli sono riconosciuti diritti inderogabili fra cui quello di dissentire e quello d’avere opinioni e volontà proprie, anche in netto contrasto con la volontà ed il comune sentire del resto dell’alveare.

Il fascismo, prima ancora di cadere vittima dei fatti storici che lo stroncarono, cadde vittima proprio di questa visione vetusta della società… dopo migliaia di anni di filosofia, avanzamento della società e sopratutto dopo l’illuminismo ed il cristianesimo il contrasto era troppo stridente per non provocare un pieno rigetto in vari ambiti della società, e questo avvenne sia sul piano laico (a partire dai comunisti, i socialisti, i liberali ed in generale tutti coloro i quali, avendo una cultura umanistica di qualsiasi orientamento, non tolleravano l’imposizione di un regime che fosse anche morale) sia su quello religioso (che respingeva l’idea che la massima autorità morale appartenesse allo stato ed ai suoi funzionari).

Già allora i partigiani presero i fucili e si armarono, pagando un prezzo altissimo, contro la struttura “ad alveare” della società. A difendere il fascismo rimasero quelli che da quel regime traevano vantaggio e quelli che semplicemente non avevano colto la visione d’insieme di quella scriteriata idea.

A difendere l’alveare si schierò quindi chi aveva subito il fascino dell’uomo fatale, del Duce, e che in esso vedeva in parte un soggetto a cui ispirarsi ed in parte un padre inarrivabile che li proteggeva e li liberava del fardello della coscienza: da quella parte c’era chi aveva demandato ad altri il peso della colpa (delle azioni svolte, del male fatto) ed aveva bisogno di quel feticcio per non doversi assumere la responsabilità di cosa era stato fatto e cosa aveva permesso che succedesse.

Qualche giorno addietro qualcuno è tornato a parlare di società ad alveare e di benessere del singolo solo in funzione della sua utilità “sociale” citando una massima di duemila anni prima: ogni tanto il passato con una frase arguta ed una coltre d’ignoranza si traveste da nuovo per blandire la libertà dei singoli.

Questa, in sintesi, la visione che dal palco di Genova Gianroberto Casaleggio ha venduto agli intervenuti: quella dell’alveare.

Torniamo a noi… qui si comincia a vedere il tessuto che negli anni il duo Grillo-Casaleggio ha intessuto per il Movimento; migliaia di soggetti ordinariamente normali ed indistinguibili ma che spinti nella giusta gabbia mentale possono arrivare a dire ed a fare le cose peggiori convinti dalla spinta della folla o dall’ordinato ragionamento che quanto si faccia sia solo uno spostare numeri ed ordinare caselle, mettere una crocetta su un simbolo e perseguire un progetto per il bene supremo dell’alveare… che le singole api lo vogliano o no (e nel qual caso sono traditrici dell’alveare).

A questo li stanno spingendo ed a questo tendono, lo vediamo quotidianamente nel loro berciare contro chi osa contraddirli, contro chi non la pensa come loro, contro chi gli viene detto di odiare, come tante api operaie si adeguano ed ubbidiscono a quello che è il meglio per l’alveare: sempre più privi di freni ideologici sono convinti che quel che fa male all’alveare non può far bene all’ape… convinti che se qualcosa è giudicato “sbagliato” o “inaccettabile” dall’alveare (e qui sappiamo chi è che decide cos’è giusto e cos’è sbagliato, chi è la coscienza dell’alveare) allora loro devono attaccarlo e distruggerlo non per convinzione personale ma perché questionare tale decisione significa mettere a repentaglio l’alveare, la comunità, l’unicum di cui fanno parte… mettere a rischio loro stessi.

Questo è quello che il Movimento si appresta a diventare, un ordinata colonia d’api in guerra col resto della società italiana, convinti che il resto della popolazione debba accettare il ruolo di operai della rivoluzione (senza diritti individuali e senza libertà di dissenso) o soccombere (almeno spiritualmente) sotto la forza innovatrice (?) dell’egemonia dell’ape regina grillina.

E voi, chiedetevi se volete davvero essere in una società d’api, perché in quella società esistono solo le regine, i fuchi e le operaie, e cinquanta milioni di operaie che riveriscono l’ape Gianroberto ed i fuchi Taverna e Di Battista non sono un bel futuro per il paese.

 

G.D.E.

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