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  • Questo topic ha 7 risposte, 4 partecipanti ed è stato aggiornato l'ultima volta 9 anni, 7 mesi fa da Anonimo.
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  • #10899
    ConteZero
    Partecipante

    Di strada, dalla nascita delle forme di vita sulla terra, ne abbiamo fatta tanta… un interminabile percorso di evoluzione che ci ha trasformato da esseri monocellulari a esseri pensanti. Il percorso è stato lungo ed accidentato.

    La natura (che in sé non esiste, è solo una semplificazione, ma per praticità chiamiamola così) ci ha presi per mano e “cambiati” per adattarci al mondo in cui viviamo.

    Se togliamo il velo di bucolico “naturismo” con cui siamo abituati a ragionare possiamo però vedere che la realtà delle cose un po’diversa da come ce l’hanno sempre presentata: le basi costituenti dell’uomo si sono evolute per essere abbastanza “resistenti” alle mutazioni, vale a dire che a meno di condizioni molto particolari (e rare), il corredo genetico “umano” (il DNA nucleico e quello mitocondriale) si preserva bene di generazione in generazione. Quella che spesso chiamiamo “evoluzione” è quell’insieme di casi che ogni tanto portano, nonostante i meccanismi messi in atto per evitarli, ad una modifica di questo corredo.

    “Oh che bello, ho la vista ad infrarossi” direte voi, e invece no perché al di fuori dei fumetti Marvel le mutazioni genetiche non funzionano così: quando non sono del tutto inutili (ad esempio si suppone che l’averci tanto “junk DNA” serva anche a questo, a diminuire la probabilità statistica che una mutazione avvenga nella porzione “utile”) le mutazioni genetiche finiscono, nella quasi totalità dei casi, per “rompere” qualcosa che prima funzionava… o comunque indebolirlo.

    La maggior parte delle mutazioni non-ininfluenti che capitano tendono ad essere incompatibi con la vita (nell’immediato o sul breve termine) mentre le altre si concretizzano in malattie genetiche o comunque situazioni in cui l’organismo, avendo qualcosa di “non perfettamente funzionante”, rischia di “rompersi” sul lungo periodo (vedasi il tumore al seno per chi ha una mutazione nei geni BRCA1 e BRCA2) e, quel che è peggio, le mutazioni, una volta avvenute tendono a perpetuarsi nelle generazioni future.

    Un infinitesima percentuale d’alterazioni genetiche invece non porta a nessun problema (o quasi) ed anzi si rivela utile per sopravvivere in certi ambienti (vedasi l’anemia mediterranea che contrasta la malaria).

    Ok, non è la mia materia, non l’ho studiata e non penso che star qui a dirvi quello che potete trovare in un qualsiasi libro di biologia sia importante, quindi la pianto qui, anche perché la questione è di diversi ordini di grandezza più complicata e spiegarla a dovere richiederebbe un genetista e delle basi che io semplicemente non ho. Avete comunque capito tuttosommato qual’è la situazione.

    Nella pratica sì, “madre natura” c’ha trasformato, dal brodo primordiale fino al raffinato homo sapiens sapiens ha fatto tutto lei e tuttosommato stato un buon lavoro… però è stato un lavoro di forza bruta, vale a dire che per essere come siamo oggi tanti sono dovuti morire, tanti sono dovuti non-nascere e tanti hanno dovuto soffrire e morire, portatori unici (o quasi) di mutazioni peggiorative. Con una mano la “natura” ha introdotto dei cambiamenti (a caso) e con l’altra ha lasciato che ci pensasse la selezione naturale a rimuovere quelli non-vantaggiosi (che sono stati la quasi totalità), mentre quelli “incompatibili con la vita” si rimuovevano da soli.

    Capite bene che è una semplificazione, nella pratica non esiste la mano della natura (o di Dio), le alterazioni capitano… capite bene che tutto questo è solo per farvi capire quanto è stato dolorosamente triste e costellato di sofferenza il processo evolutivo che c’ha portato qui a leggere da un monitor.

    Grazie natura, è stato bello. Ora però sarebbe il caso che andassimo avanti noi.

    Recentemente l’uomo ha sviluppato la società civile, la medicina e nell’ultimo istante (se rapportato all’intera evoluzione umana) è spuntata anche la genetica e con essa la capacità di capire come funziona il nostro corredo genetico.

    Con la società “civile” (che, a dire il vero, è un qualcosa in divenire) s’è limitata la selezione naturale basata sull’incapacità di competere e di procurarsi il cibo (e si sono mandate in soffitta vecchie pratiche, come la rupe tarpea), con la medicina abbiamo iniziato a contrastare le malattie e/o i sintomi che fino a qualche centinaio d’anni fa avrebbero sterminato le mutazioni meno adatte e con la genetica probabilmente un giorno riusciremo a contrastare anche le mutazioni genetiche, o addirittura usarle a nostro vantaggio.

    No, non siamo ancora giunti al momento in cui possiamo definirci onnipotenti, e non c’arriveremo mai ma a poco a poco che ci sviluppiamo socialmente, culturalmente e scientificamente diventiamo padroni del nostro destino e del nostro futuro… ed è venuto il momento in cui alcuni ragionamenti ed alcune scelte vanno fatti.

    Oggi con gli strumenti a disposizione della popolazione è possibile diagnosticare prima della nascita diverse mutazioni genetiche che si concretizzerebbero in malattie, è addirittura possibile diagnosticarle prima dell’impianto in utero qualora si ricorra alla procreazione assistita e tuttavia il maggiore dei problemi è che ancora la “società” non ha deciso chiaramente come porsi davanti a questi strumenti, a queste possibilità.

    Non sono un nazista e non ho idee per la superiorità o la purezza della razza, non ritengo che esistano uomini superiori o migliori dal punto di vista prettamente morale o etico, però a poco a poco che andiamo avanti ci viene offerto un insieme di strumenti che possono portarci a vivere meglio e nonostante questo a causa del lascito delle religioni e del ricordo delle schifezze fatte dai nazisti non c’è ancora stato un dibattito serio sull’argomento: su come usare e con quali limiti porsi davanti a queste opportunità.

    Non sto parlando di “eugenetica” nel senso classico, non parlo di aborti, di procreazione assistita e via dicendo, parlo in un livello superiore, anche se poi bisognerà comunque fare i conti sul “come”… il punto è cosa vogliamo fare di quello che stiamo diventando capaci di fare ?

    Fermo restando che (per fortuna) non si può imporre niente a nessuno il problema è: è giusto, è corretto utilizzare questi strumenti per agire sul corredo genetico di un uomo? Per meglio dire, è giusto permettere che l’umanità possa accedere a strumenti per modificare (o comunque ritoccare) il proprio corredo genetico ?

    Vi prego, non tirate fuori Giovanardi con le sue idee sui bimbi con gli occhi azzurri ed i capelli biondi, non è questo di cui sto parlando… sto parlando del fatto che non è difficile pensare che un domani sarà possibile, in qualche modo, mettere mano al corredo genetico dei nascituri (o dei nati) per correggere eventuali “errori” (vedasi BRCA1 e 2), evitare certe malattie genetiche e, perché no, eliminare i “difetti” di cui soffrono alcune popolazioni o parti di esse (tipo l’intolleranza al lattosio).

    Se fosse possibile, sarebbe giusto farlo ?

    Se fosse possibile, fino a dove ci si dovrebbe spingere ?

    Se fosse possibile, sarebbe giusto migliorare il corredo umano ?

    Ci dovrebbero essere dei limiti ?

    Oggi non abbiamo ancora gli strumenti per arrivare a tanto ed il massimo che c’è dato spesso è semplicemente la possibilità di diagnosticare gli embrioni / feti “malati” (con mutazioni gravi) e, a seconda delle leggi dei vari paesi, abortire o non impiantarli… ma un domani chissà.

    L’ingombrante questione è tutta qui.

    Il “frutto proibito” l’abbiamo già mangiato quando abbiamo iniziato a contrastare (nei limiti del possibile) la selezione naturale: presto potremmo avere gli strumenti per sostituirci all’evoluzione naturale e fare, per certi versi, meglio, non con un approccio di “forza bruta”, non tentando di migliorare solo in forza della statistica perché una mutazione su un milione è superiore ed in forza a quella sua superiorità si diffonde ma in modo ragionato, correggendo gli errori del “caso” e puntando ad un miglioramento che è innanzitutto della salute della popolazione.

    Già oggi, con gli strumenti limitati che abbiamo a disposizione, si vedono i problemi insiti in questo “potere” che gradualmente andiamo acquistando, e tuttavia manca un dibattito costruttivo, un dialogo serio sul versante civile.

    Gli scienziati fanno il loro dovere: guidati dal desiderio di fare e di scoprire portano, per quanto gli sia possibile, sempre più in là l’asticella di quel che si può fare… ma la società civile dov’è ? E’pronta a discutere di quello che potrebbe aspettarci ?

    …e mentre quei pochi che s’interessano alla questione perdono tempo a parlare d’aspetti secondari del problema (l’anima ?) altrove sono riusciti a produrre un organo funzionante partendo da cellule non staminali: la società civile (inteso come massa di persone) rischia d’arrivare impreparata in un era meravigliosa e spaventosa insieme.

    Vorrei aprire un dibattito sulla questione. La mia posizione, per quel poco che vale è che sarebbe giusto, qualora possibile, lavorare sul corredo genetico per migliorare le future generazioni: l’evoluzione naturale (ammesso che possa ancora funzionare, specie ora che mettiamo a dura prova il processo di selezione) richiede tempi lunghissimi per portare ad un qualche miglioramento, e nel farlo sarebbero miliardi quelli costretti a soffrire. Potremmo avere uno strumento fenomenale per evitare (o correggere) le mutazioni negative ed anticipare quelle positive.
    Potremmo sconfiggere tanti mali dell’umanità nel giro di una generazione ed in un qualsiasi momento, volendolo, potremmo tornare indietro.
    Il problema vero sarebbe definire l’uomo al di là del suo corredo genetico (e non è facile, perché noi siamo il frutto del nostro corredo genetico e dell’interazione di questo frutto con l’ambiente circostante) ed evitare di farsi prendere la mano.
    A voi la parola.

    #10901
    Antonella Baroni
    Partecipante

    io lo trovo molto bello.

    #10902
    Antonella Baroni
    Partecipante

    anzo…molto, molto bello.

    #10905
    Capretta Amaltea
    Partecipante

    Osservazioni tecniche ne avrei (ad esempio, i meccanismi atti a preservare la fedeltà dell’informazione esistono in tutti gli organismi e non solo nel DNA umano; il meccanismo della selezione naturale è alquanto più complesso di come lo descrivi; siamo piuttosto lontanucci da poter intervenire con cognizione di causa a modificare geni alterati) ma nell’insieme penso che il problema che poni merita di essere discusso. Di fatto l'”alterazione” della selezione naturale avviene in molteplici modi molto più rilevanti dei futuribili interventi diretti sul DNA: le fognature, l’igiene, la migliore alimentazione, i progressi della medicina e quant’altro…inclusi, per fare un esempio terra-terra, gli occhiali. Forse sarebbe opportuno sottolineare meglio quest’aspetto, se vuoi, ma comunque postalo e tutti i caproni contribuiranno con i loro due cents.

    #10906
    Antonella Baroni
    Partecipante

    io quello che trovo cosa da far uscire di melona, è che quelli che ‘ne sanno’, in quanto ‘addetti alla materia et saputi’, stiano sempre a sottolizzare, quando secondo me, da una che si è sciroppata ‘altra materia’ (più plebea?) , trova che come la ha messa già Conte, al di là del ‘sintetico o meno sintetico’, sia una meraviglioso, e raro, modo, di fare incontrare due mondi che, solitamente, non si incontrano.
    quindi ben vengano tutte le specifiche…ma prima la vogliamo dire, che è raro trovare qualcuno che riesce a sintetizzarla nelle sue ‘generali’, così bene?

    #10907
    Antonella Baroni
    Partecipante

    ah, scusate i refusi. tanto ne faccio altrettanti anche provando a correggere.
    è una rob che proprio c’entra con delle cosette forse ‘genetiche’.

    #11096
    ConteZero
    Partecipante

    Adoro il mio PC, l’ho costruito pezzo per pezzo scegliendo ogni componente e risparmiando euro dopo euro per poterci mettere quel particolare hard disk, quel certo monitor, quella specifica scheda video.
    Il mio PC è mio.
    Vedete, il concetto di proprietà è quello più usato ed abusato nella vita quotidiana e, nonostante questo, è contemporaneamente quello meno compreso dall’uomo della strada (nonché quello che meno viene considerato quando usato con un “non” prima).

    Io ho qualcosa che è mio, qualcosa che al di fuori di particolarissimi casi (cioè la difesa e la sicurezza della comunità) posso usare come mi pare, qualcosa che è nella mia disponibilità.
    La mia automobile, la mia casa, la mia pistola… cose “mie” che mantengo io, i cui costi di manutenzione ricadono su di me e che sta a me usare.

    Se ho un negozio, un furgone per le consegne, una barca da pesca… queste cose sono mie: io ho pagato e pago per mantenerle, io ne sono proprietario ed io posso decidere (con evidenti limiti) come disporne per condurre la mia attività.
    Anche i miei soldi sono miei. Ovviamente pago le tasse come fa (o dovrebbe fare) ogni cittadino, ma sono soldi miei ed ho il diritto di farne quello che voglio: donarli in beneficienza, investirli nelle mie attività, comprarmici una barca, fare un viaggio… è roba mia.

    Dove voglio arrivare con questo discorso ?
    Se io sono un imprenditore o se voglio diventarlo è una mia scelta, scelta che posso fare solo io e che devo sostenere da solo, coi miei mezzi, i miei soldi e le mie proprietà. Se va bene e guadagno va bene, se va male chiudo. E’una mia scelta.
    Se decido d’aver bisogno di una persona che lavori per me ? Beh in quel caso l’assumo. Ora ho una persona che mi “vende” il suo tempo e la sua fatica in cambio di uno stipendio. In linea di principio è così.

    Qui entra in gioco lo Stato. Lo Stato stabilisce specifici vincoli ed impone precise tutele sia per il lavoro (com’è ovvio che sia, per la salute mia, dell’ambiente e della popolazione) sia per chi dipende da me.
    Ora, diciamolo chiaro e tondo, lo Stato italiano è universalmente noto per essere uno dei più rompiscatole in quest’ambito: richiede certificazioni, controlli, visure, tasse, dichiarazioni, tasse, controlli periodici, tasse… lo può fare e lo fa perché é lo Stato italiano e l’attività è ubicata in Italia, quindi se voglio poter lavorare ho bisogno del “permesso” dello Stato, permesso che lo Stato mi da solo a specifiche condizioni.

    La decisione di rischiare, di metterci i soldi e di provare a guadagnare con un attività è mia, ma come vedete lo Stato ha diverse leve per costringermi a fare le cose “come vuole lui”.
    Una di queste è appunto la serie di obblighi necessari per poter lavorare (il bastone) mentre l’altra è una serie di possibili incentivi (riduzione delle tasse, agevolazioni, finanziamenti) che mi vengono concessi se faccio “come dice lui” (la carota).
    Io rischio, lo Stato “vigila” ed il mercato decide se la mia attività rende o meno. Chiaro ?

    E se io domani volessi chiudere l’attività perché sono stufo ? E se domani volessi trasferire armi e bagagli (nonché capitali) all’estero e salutare l’Italia ?
    Ovviamente (entro certi limiti e con specifici iter) posso farlo, sono cose mie ed è una mia scelta decidere se e come tirare avanti la mia attività. Ovvio che se mi sono impegnato formalmente a non chiudere e non delocalizzare (con appositi obblighi contrattuali, ad esempio in cambio di qualche “carota”) sono più limitato ma questo non cambia di molto il discorso di fondo. E qui casca l’asino.

    Benvenuti gente, questa è l’Italia del 2014.

    Eccoci qui. La situazione italiana la conosciamo tutti e non c’è bisogno di scendere nel dettaglio, sicuramente fra i commenti troverete almeno un paio di persone prontissime a dirvi quanto sta male oggi l’Italia… quel che conta è che per ora in Italia il problema non sono i capitali, sono gli imprenditori.
    I soldi per fare impresa ci sono o si trovano (anche perché nonostante tutto il sistema creditizio esiste ancora, pur essendo anche questo abbastanza provato), il problema è che non c’è più nessuno disposto a farla. Sì, non sono stupido, so bene che in questa fase di contrazione non ha molto senso aprire un’attività (perché la gente non è propensa a spendere) però il discorso non si esaurisce lì.
    Le cause della “crisi” imprenditoriale italiana sono di tanti tipi e fra esse le più discusse sono le tasse asfissianti, una burocrazia incredibile, la concorrenza sleale dovuta a mafie e corruzione ed una giustizia civile così lenta (specie se la controparte sa come rallentarla) e macchinosa da scoraggiare anche i più ardimentosi.
    E così chi fa impresa è costretto a barcamenarsi fra tasse assurde per importi e modalità (uno spezzatino di bolli, imposte, pagamenti), una selva di permessi (certificazioni e nulla osta che spesso non tutelano e non attestano nulla: lasciti velenosi della volontà di normare “analmente” ogni ambito della vita pubblica), concorrenti sleali (che tanto non pagano le tasse, quindi possono permettersi di chiedere meno) o addirittura violenti (che minacciano te o la controparte) ed ovviamente un sistema legale che ci mette anni a deliberare qualcosa.

    Fino a qui non mi pare di dire niente di nuovo. Sbaglio ?

    Per cercare di rilanciare l’impresa in Italia (perché checché se ne dica è l’impresa a creare lavoro, a pagare gli stipendi ed a far girare l’economia… ed anche chi lavora nel pubblico deve il suo stipendio all’impresa privata) oggi, dopo anni d’immobilismo, si comincia a discutere seriamente di questi problemi.

    Che s’è fatto finora ? Molto poco, per non dire nulla.
    Le sinistre sono state troppo “ideologiche” con la loro visione “bucolica” dei mercati e del lavoro: con l’idea che bastasse un emendamento, un decreto o una nazionalizzazione (vedasi Ferrero, che voleva nazionalizzare l’Alcoa). L’idea che bastasse fare un concorso pubblico o stilare una graduatoria per produrre lavoro e reddito ha prodotto (ben prima della seconda repubblica) un sistema che ha fatto scempio del denaro pubblico assumendo e prepensionando, convinti che bastasse il “posto fisso”, magari statale o para-statale per tenere a galla la baracca.
    Le destre sono state anche peggio, anziché tentare di rimettere in ordine il mercato del lavoro spesso e volentieri si sono limitate a difendere le rendite di posizione di manager ed aziende, bloccare qualsiasi possibile concorrenza (vedasi la storia del governatore Fazio e della difesa dell’italianità delle banche) e, davanti ad un mercato del lavoro ingessato, hanno dato il via ad una flessibilità chiamata “precarizzazione selvaggia” che ha diviso i lavoratori in due classi: quella dei più fortunati “lavoratori a tempo indeterminato” e quella dei “precari”, a cui non sono riconosciute tutele di sorta.
    Ed eccoci qui, ci troviamo nella condizione di dover rimettere in piedi un sistema disastrato, e di doverlo fare nel modo più truce possibile: a viso aperto.

    In questo frangente il problema più grosso è convincere la gente (italiani o stranieri) ad investire qui, a portare lavoro qui… in pratica a fare impresa in Italia. Abbiamo già subito la fuga di migliaia di piccole e medie imprese che, a causa dei motivi suddetti, hanno chiuso per riaprire altrove, in paesi dove gli stipendi sono più bassi, le tasse meno gravose, la burocrazia meno oppressiva ed il mercato del lavoro più aperto.

    Già, il mercato del lavoro…
    Molti in questi giorni attaccano il governo per la decisione di voler agire su di esso limitando i diritti dei lavoratori… la verità molto più semplice (e più brutta) è che i lavoratori di diritti praticamente non ne hanno, la buona parte di essi non può permettersi una gravidanza per non restare disoccupata o anche solo di stare a casa in caso di malattia.
    I lavoratori precari hanno ben poche tutele (ne hanno qualcuna ?) e vengono trattati come dei paria dai lavoratori a tempo indeterminato che in queste ore lo stanno involontariamente dimostrando lanciandosi in uscite come “vogliono farci diventare tutti precari”.
    Qual’è il punto, il punto è che l’apertura alla flessibilità “di destra” ha creato una categoria di lavoratori a zero tutele che a poco a poco sta sostituendo quelli a tempo indeterminato (che, a loro volta, difendono ostinatamente i loro diritti).

    E andiamo al punto…
    In discussione in queste ore c’è il famigerato “jobs act”, una riforma delle regole sul lavoro che tocca anche il contratto unitario, mettendo in discussione anche un punto che oramai è una specie di colonna inviolabile per i dipendenti tutelati : l’articolo 18.
    L’articolo 18 è una norma che si applica a tutte le società con almeno 15 dipendenti e norma un caso particolare, quello del licenziamento senza “giusta causa”. La cosa a cui i lavoratori tutelati non vogliono rinunciare è l’obbligo di reintegro che permette ad un dipendente licenziato di recuperare il suo posto di lavoro nel caso in cui il licenziamento sia riconducibile a ragioni non valide a termini di legge.
    Quest’articolo è già stato modificato di recente ma la modifica, molto rimaneggiata dalle parti, è risultata poco più che un papocchio e, per di più, un papocchio mal scritto, col risultato che se da una parte l’80% delle cause finivano col reintegro da un altra ad essere reintegrato era solo il 20%, segno di un’eccessiva discrezionalità.

    La legge in discussione parla del passaggio ad un modello a tutele progressive che, stando ai proponenti, dovrebbe soppiantare quelli preesistenti… cosa che fa sicuramente piacere ai precari ma non piace assolutamente agli altri. Chi è coperto dal contratto nazionale vede con orrore la possibilità di perdere una tutela così centrale e chiama in causa le associazioni che da sempre difendono i diritti dei lavoratori i sindacati.
    I sindacati, chiamati in causa dai propri tesserati, si sono subito schierati contro il governo ed il “jobs act”, arrivando in queste ore a definire tatcheriana questa riforma.
    Ad essere cattivi (e lo sono) ci sarebbe da chiedersi perché i sindacati sono così solerti a difendere i lavoratori che risultano loro tesserati mentre di tutti gli altri (in particolare i precari) se ne sono sostanzialmente sempre fregati (o comunque sono stati disposti a lasciarli cuocere nel loro brodo senza opporre chissà quale resistenza).

    Inutile perdersi in altre parole, il discorso è uno e semplice: noi italiani non siamo né i più belli né i più bravi né i più intelligenti fra gli abitanti di questo pianeta. Ci sono letteralmente miliardi di persone che possono fare gli stessi lavori che facciamo noi italiani, e meno il lavoro è specializzato più è la gente disposta a farlo.
    La concorrenza con l’estero è fortissima, ancora di più considerando gli ostacoli tutti “italiani” di cui ho parlato sopra, ed a questi s’aggiunge l’ingessatissimo mercato del lavoro in cui le tutele sono sproporzionate rispetto a quelle dei paesi limitrofi.Il problema molto evidente all’estero, tant’è che ogni report economico non manca di citare questo aspetto.
    Ovvio che chi non è obbligato a lavorare in Italia ne fa volentieri a meno, e chi vorrebbe entrare cambia idea abbastanza in fretta.
    Quanto si spera di poter mantenere in piedi l’Italia con un mercato in queste condizioni ? Tutti hanno acclamato Renzi (e Grillo) perché volevano le “riforme”, volevano il cambiamento dopo anni d’immobilismo… ma esattamente cosa speravano che fossero queste riforme ?
    In Francia un lavoratore licenziato senza giusta causa dev’essere reintegrato solo nel caso in cui il licenziamento sia effetto di questioni molto specifiche (ad esempio aver rifiutato le avances del datore di lavoro) mentre di norma se il datore di lavoro si oppone al più il ricorrente ha diritto ad un indennizzo. Nel resto d’Europa non tutti i paesi offrono il reintegro e comunque di norma i giudici optano per un risarcimento.
    Non per dire che il reintegro non sia giusto, semplicemente è poco usato, anche perché reintegrare qualcuno che evidentemente sta sulle scatole ai suoi superiori non è granché produttivo, per nessuna delle due parte.
    E’ovvio che a questo deve seguire altro : chi viene licenziato senza giusta causa dev’essere risarcito della perdita del lavoro e messo in condizione di poterne trovare un altro (ed è giusto che chi licenzi paghi per tutto questo) ma è irragionevole andare oltre.

    Oltre a questo, è giusto dirlo, c’è un altro aspetto importante : l’Italia è un “sorvegliato speciale”, dell’Unione Europea sì, ma più in generale dei mercati; l’articolo 18 in sé è una specie di bandiera: se non si riesce a mettervi mano in modo serio vuol dire che il mercato del lavoro in Italia è irriformabile, ed anche questo avrebbe le sue conseguenze in ambito internazionale.

    Tirando le somme com’è ovvio che un modello a tutele crescenti, semmai venisse adottato in larga scala (è un bel “se”) sarebbe una manna dal cielo per i precari è ovvio che se vogliamo tornare competitivi in qualche modo qualcosa toccherà fare.
    Gli stipendi più di tanto non si possono toccare, le tasse sono quelle che sono, la burocrazia ci si sta lavorando, il malcostume “si fa quel che si può” ma almeno il mercato del lavoro vorremo modernizzarlo un po’ ? Non è detto che sia tutto negativo, specie se i contratti a T.C. sostituissero le varie forme di precariato (e magari, a che ci siamo, mettiamo un freno agli stage) ma, alla fine della giostra, l’importante è semplicemente iniziare un processo di svecchiamento (anche impopolare) che nessuno ha mai osato iniziare e che sta riducendo l’Italia al collasso.
    Certo, è solo un primo, piccolo passo, e non è detto neanche che sia il miglior primo passo, ma meglio dell’immobilismo.
    E poi c’è un altra considerazione, abbastanza importante: io da datore di lavoro voglio buttare fuori qualcuno dalla mia società avrò pure il diritto di farlo ? Pago eh, pago tutto ma se non ce lo voglio più (magari perché dopo un primo tempo diventa un peso morto, occupa un posto che vorrei dare ad un altro o semplicemente mi costa e non rende abbastanza) ce l’avrò il diritto di liberarmene ?
    No, perché altrimenti chiudo e riapro dove non mi fanno storie… o magari, già che la congiuntura economica non è delle migliori, faccio prima e non apro neppure, tanto sono mezzi, soldi e rischi miei… e non mi può obbligare nessuno.

    Pensateci, perché si rischia di diventare i sessanta milioni di disoccupati più tutelati del pianeta.

    Dedicato ad Amadiro.

    #11119
    Anonimo
    Inattivo

    Disclaimer:
    Se vi interessa uno scritto che “rapisca il cuore”, oppure adorate la pungente logica ristretta,desistete adesso.

    In risposta a : 60-milioni-di-disoccupati-garantitissimi

    60 milioni di disoccupati garantitissimi

    Già il titolo spiegherebbe molte cose.

    QUesta è la Narrazione attuale.

    ****al primo scritto è stata aggiunta, dopo pubblicazione,forse constata l’aria che tirava,su richiesta dell’articolista, un pezzo di altra mano sui sindacati.Per bilanciare si dice, ma che in realtà non analizza controfattualemtne la tesi principale.

    *****Lo stesso autore del pezzo,in collegamento con questo scritto, ci invita a leggere uan parodia di Ghandi, il freak perdente dalla storia e antimodernista. per compararlo ai critici della sua lenzuolata dialettica.
    Qunato vi sia in questo paragone, qualcosa fra il derisorio di posizioni altrui, la sicumera di “interpretare il progresso e la modernità” o l’arroganza da “soluzione giusta della “sinistra?” possibile” , è un fattore che lascio giudicare a chi legge.

    Come già detto, è a mio parere una lenzuolata dialettica stile agit-prop, come spesso se ne sentono .

    Questo il giudizio sintetico anche a partire dal refrain “carestia e morte“, se non si approva acriticamente l’ennesima ricetta che và nella direzione di quelle perpetrate in questi anni, che di effetti positivi non ne hanno avuti tanto.

    Inizio col dire che pur non essendo ancora nero su bianco,l’articolista ha già deciso che “fa tutto schifo” e che “il meglio deve ancora venire“(cit).

    La cosa piu’ probabile però, è che i nuovi assunti a tutele crescenti, non avranno MAI il diritto al reintegro nel caso di licenziamento senza giusta causa.L’azienda potrà farlo pagando una penale,ancora non definita quindi potenzialemente anche risibile.
    Oppure rimodulabile per far cassa, a seconda delle esigenze.
    Questo per i neo-assunti,sostituendo un tipo di dualità con un’altra, mai sanabile.

    D’altra parte poco è noto del numero di contratti precari che rimarranno a dispetto della voce invitante”contratto unico”, nè e dato sapere pochè il Job act richiede un welfare molto generoso , quale sarà l’abbondante welfare ( leggi coperture finanziarie) postulato dagli stessi sostenitori di tale modello.

    Come spesso succede nel piu’ classico dei qualunquismi, si applica una critica distruttiva dell’esistente(fondata o meno, vedremo dopo), per propalare il “qualcosa di nuovo”.Acriticamente.

    Poche righe e tutte generali si adoperano per descrivere e le criticità enormi di questo nuovo sistema di welfare,oppure per connotarlo .

    E anche la discussione, non verte sul “mondo che verrà”, ma nell’analizzare pregi/difetti della nuova ka$ta che frena il paese.
    E cioè che “l’innovazione” sai monopolio Renziano, e sai per definizione panglossianamente inattaccabile.
    Ecco quindi che sul dipolo Renziano immobilismo/MIA_IDEA_di_dinamismo verte gran parte del’argomentazione.

    Con dei presupposti che vanno dall’apocalittico al farlocco , per passare addirittura alla mercificazione tout court del rapporto di lavoro, stile Cummenda.
    Su questi aspetti,citando come in realtà il rapportto di lavoro è sempre stato sempre normato diversamente da uno scambio di merci,preferirei sorvolare, registrando soltanto il brodo culturale dove queste affermazioni si nutrono.

    Seguirò due linee generali, ove si cercherà sia di mettere in luce cosa direttamente/indirettamente l’ammuina(cit) dialettica annunci come vantaggi di questa scelta,che di elencare controfattualmente molte assunzioni campate in aria e perlopiu’ senza fondamento che il nostro agit-prop (perchè non mi direte che si tratta di una rivisitazione minimamente critica) porta a supporto delle sue tesi.

    Ci saranno inoltre alcuni riferimenti bibliografici anche sul quel che ci aspetta( job act come modello, rischi e benefici),perchè solo due anni fà era la cura perfetta, capace di accontentare chi sogna di campare di sussidi ( si, gli ichiniani erano la versione colta e intasante dei grillini “di cittadananza”) , così come l’astio verso i lavoratori dipendenti.

    1) L’articolo sia nel titolo che nella sua chiosa finale,quasi apocalittica ( uno dei dipoli usati dai renziani per fare terra bruciata anche all’interno del partito) mette subito in relazione che tale #rivoluzione renziana sulla legislazione con un aumento dell’occupazione ( 60 milioni di disoccupati).
    Chi potrebbe essere contrario se non gli stolti?
    Pensiamoci(cit)

    1a)E cioè che per incentivare gli investimenti ( di cui abbiamo bisogno,cit) e di rimando l’occupazione, tale flessibilità abbia un apporto positivo per la società.

    Chi sostiene in maniera naive questa tesi, si spinge addirittura ad una comparazione con altri stati Europei ( corretto, siamo in un mercato unico , ma cita solo la Francia),addirittura affermando che :

    “La concorrenza con l’estero è fortissima, ancora di più considerando gli ostacoli tutti “italiani” di cui ho parlato sopra, ed a questi s’aggiunge l’ingessatissimo mercato del lavoro in cui le tutele sono sproporzionate rispetto a quelle dei paesi limitrofi.Il problema molto evidente all’estero, tant’è che ogni report economico non manca di citare questo aspetto.”

    Niente si sà di tale caterva di report che citano l’ingessatissmo mercato del lavoro italiano, in comparazione con altri paesi Europei.

    Ecco la situazione generale del calo degli investiemtni nell’Eurozona:

    https://twitter.com/TedMerz/status/511549772990545920

    Come poter pensare che essendoci già paesi ultraflessibili,in cui è aumentata la disoccupazione, diminuito il salario e alcuni fondamentali come il rapporto deficit/Pil o il disavanzo della bilancia commerciale( riduzione degli export), che seguendo la stessa strada aumenteranno tali investimenti, in maniera esclusiva per l’ITalia?
    O che di rimando sia proprio la mancata flessibilità a determinare e mantenere un tonfo così accentuato?

    A ben vedere invece tali misura e le giustificazioni che se ne danno ricalcano piu’ il mdoello Spagnolo , sia per la strada che propone ( in Spagna, per esempio è stato abolito dalla destra l’articolo 18,e ridotte le indennità in caso di licenziamento ingiusto ottenendo possiblità di soframento del rapporto deficit/pil, adesso al 6%).
    Risultati:compressione salariale, aumento vertiginoso della disoccupazione e relative spese sociali,investimenti in calo, bilancia commerciale negativa.
    Disoccupazione e spesa Sociale_Spagna_versus_other
    Nel grafico la spesa Sociale Spagnola e il livello di disoccupazione.

    La tesi che basti la libertà di licenziare per sbloccare questo “pseudo-ingessamento” ( come se la flessibilità oramai non fosse la norma ,anche nei nuovo contratti di apprendistato introdotti recentemente) non basta.

    E di piu’ la Spagna culturalmente a noi simile, ha anche il vantaggio di essere piu’ “continentale”.
    Su tale comunanza già indicata da molti (anche a destra, per esempio Phastidio),vedi per esempio Clericetti

    2)Di piu’.L’unico indice comparativo usato dai “report ” internazionali, è l’indice EPL fornit dall’Ocse, che si compone di varie scale.
    Da alcuni ciriticato ( ma senza alternative) poichè per uan comparazione azzera le specificità nazionali, senza considerare che ciò avviene per TUTTI i paesi in questione.Edè sempre l’unico metodo conosciuto, in altri campi per poter fare delle comparazioni.

    Tale indice il livello di protezione legislativa (rispetto alla licenzabilità individuale e collettiva) sul lavoro fra i vari paesi , permettendone un confronto.
    EPL EUROZONE

    Osservandolo, anche “nei paesi limitrofi”, si dimostra la Falsità di un’altra affermazione su cui dovrebbe reggersi questa lenzuolata.

    E si cita solo l’esempio Francese (“ad esempio”,cit), come se il livello di tutela legislativa non sia nettamente maggiore.

    Si può anche eliminare un airbag, se poi sotto altre forme, la mia protezione è maggiore.

    1b)
    Invece come già molti sostengono (anche oramai nella destra liberale) ,in realtà alcune riforme recenti di uguale direzione e cioè che assumono una relazione positiva fra d flessibilità/maggiori investimenti-occupazione , si stanno dimostrando false.

    Nessuno fra gli economisti(neppure i piu’ liberisti come Blanchard), si azzardano a stabilire una relazione fra occupazione e flessibilità e anzi in alcuni scritti, pur senza correlazione, tale trend è negativo
    Vedi per esempio:

    Ma rendere più flessibile il mercato del lavoro ha fatto calare l’indice di disoccupazione nello stesso periodo? “Come si osserva dalla nostra elaborazione, la retta di regressione appare inclinata negativamente. Il che significa che al ridursi dell’Epl, e quindi all’aumentare della flessibilità, la disoccupazione nell’eurozona tende generalmente ad aumentare.”

    http://www.wired.it/economia/lavoro/2014/06/05/flessibilita-occupazione-poletti/

    2)In pratica l’articolista, con “stile”, dilata dialetticamente le parole d’ordine :”Numeri disoccupazione impressionanti, subito il Job Act”.

    O la stretta relazione paventata da Renzi nella sua lettera agli iscritti al PD al paragrafo lavoro, dove si collega esplicitamente il Job act alla ripresa degli investimenti.

    Segue tutto un discorso pseudo-storico con destra e sinistra come se ( come se , Treu e Biagi,applicate a spizzichi e bocconi fossero stati amici del pur forse esecrabile Ferrero o solo delle destre), “l’ingessatissimo mercato del lavoro” che prevede un numero di contratti maggiore di quello delle dita di piedi e mani messi insieme, non incrementi ,e invogli la flessibilità e la precarietà,ampiamente praticata nel nostro paese.

    La destra ci ha messo oltremodo del suo, detassando gli straordinari,eliminando le clausole per assunzioni a termine, disincentivando quindi nuove assunzioni in pianta stabile.
    Un ‘analisi critica di queste ricette,andrebbe fatta, e anche cercare di capire in che grado quel che si propone vada in questa direzione.

    Interessante ad esempio:
    _____________________________________________________
    Ad ogni modo, appare evidente che il segno principale impresso dai primi atti di natura legislativa del governo Renzi si collocano in continuità con una politica di flessibilizzazione della prestazione lavorativa nella dichiarata speranza che ciò porti a incrementi dei livelli occupazionali; una “retorica” ormai così radicalmente sconfessata sul piano scientifico che non può che essere chiamata “ideologia”

    o qui
    Niente.
    Il nuovo #maivisto .

    4) “L’articolo 18 in sé è una specie di bandiera: se non si riesce a mettervi mano in modo serio vuol dire che il mercato del lavoro in Italia è irriformabile
    Le decine di forme contrattuali, le numerose riforme sul lavoro( Biagi a spizzichi,Treu,causale dei contratti a termine, e per ultimo Fornerno-Monti, 2011), ci dicono che il legislatore tanto pigro non è stato.

    Ergo tirare in ballo l’impossibilità di licenziare come causa del nanismo imprenditoriale italiano, è un vecchio arnese della destra , e neanche tutta, in ambito di politiche del lavoro.
    La tesi di fondo nella Narrazione incappa in una grande contraddizione: da una parte un mercato del lavoro ingessato, e dall’altra un numero spropositato di precari.
    Ad oggi si può assumere anche per un week-end.
    E circa il 90% delle imprese hanno un numero di dipendenti compreso fra i 5 e 9, sia mantengono cioè ben lontani dalla soglia dei 15, quando scatterebbe tale tipo di tutela, di certo non per questa paura.

    Di rimando, l’art 18 riguarda 7 milioni ( piu’ di 9 con l e PA) di dipendenti.

    5)“No, perché altrimenti chiudo e riapro dove non mi fanno storie… o magari, già che la congiuntura economica non è delle migliori.”
    In altre parole, si sussurra ,che tali norme ( ma non ha ancora detto quali nello specifico, si elogia solo la flessibilità) , possano permettere una minore delocalizzazione.
    Sarebbe interessante monitorare , come ha chiesto qualcuno anche in Parlamento, l’effetto di questa riforma su occupazione investimenti e delocalizzazioni.
    Il rifiuto del Governo probabilmente ha un suo perchè, oltre l’arroganza di chi detiene “verità”.

    Ho come la “sensazione” che tale possibilità al licenziamento in realtà apra le porte alla delocalizzazione, tramite pesanti ristrutturazioni, poichè in caso di crisi non si devono aprire noiosi tavoli, come quello di Elettrolux, per esempio, ma vi si esce con un indennizzo.
    A conti fatti un ulteriore incentivo alla “ristrutturazione all’estero”.
    —————————————————–
    ————————-JOB ACT THE MODEL NEVER WAS————————
    flex_sec
    “Denmark has one of the most comprehensive and expensive welfare states in the world. Social expenditure as a percentage of GDP was 26 percent in 2007, compared to 19 percent averaged across the OECD.”

    La Danimarca è uno degli Stati con un welfare piu’ ampio e costoso del modno.
    La spesa sociale nel 2007 era del 26% del PIL , comparata al 19% di quella media dell’ OECD .

    Sul Job act , un idea degli anni 2000 propalata anche dall’Ocse, attuato solo in Danimarca, alcuni punti salienti,
    considerando che l’articolo , pregno della sola pars detruens renziana si limita semplicemente ad ignorare il modello che ci si propone ,puntando ( e bilanciando in parte ma genericamente) sulla solita ka$ta dei lavoratori dipendenti (stipendio medio circa 1300 euro), e sindacati.

    1)Come abbiano detto risale agli anni 2000 , quando c’era ampie opportunità di avere un welfare generoso
    1a)Riproposto in Italia da Ichino-Renzi durante le primarie del PD , in cui risultà sconfitto, durante le quali vennero analizzati approfonditamente i suoi punti di forza e debolezza, non per ultimo il welfare estremamente generoso necessario alla sua implementazione e il fatto che il “marcio danese” non è quello italiano.
    Anche qui, funziona la critica al grillino qunado sproloqui di reddito di cittadinanza ma poi?

    Vista questa ingente necessità di soldi pubblici di questo modello di welfare, posto che si riesca ad implemetarlo in Italia ,e vista la crisi, il rischio concreto è che della flex-security sperimenteremo solo la flex, alla spagnola appunto.
    In altre parole il modello danese si lega alla specificità di quella nazione rendendolo di difficile esportazione.
    Un’altra convincete analisi di questo modello , sempre da parte in area di economisti gravitanti introno al Partito del Socialismo europeo, mette anche in luce che , il tasso di protezione lavorativa della Danimarca era sottostimato negli anni ,facendo quindi cadere il mito della flex-security,come sola politica attiva nella ricerca di un’occupazione.
    Lo Stato che la applica spende molto in termini di fondi pubblici, sia per politiche attive che passive.
    I benefici si hanno sono da addebitarsi a queste spesa pubblica,piuttosto che dalla possibilità di poter licenziare il lavoratore.
    Si adulava quindi un modello che non era mai esistito(Never was), se non appunto con un ingente welfare/spesa di sostegno.
    Altro che “il mercato farà da se“.

    L’Autore conclude che:

    “All of this actually means that the whole policy of flexicurity, as it has been promoted all these years by the European Commission, has been based on a statistical illusion.
    Tutto ciò significa che l’intera politica di flexsecurity, promossa in questi anni dalla Commissione Europea, è basata su un’illusione statistica.

    The argument according to which the success of labour market performance in Denmark can be put down to the fact that workers and not their jobs are being protected is simply not correct.
    L’argomento secondo il quale il successo delle politiche del lavoro in Danimarca possa essere attribuito al fatto che fossero stati tutelati non il loro lavoro (notate la Sloganistica della Narrazione ? nota di chi scrive) , ma i lavoratori è semplicemente sbagliata.

    Through its system of collective bargaining, Danish workers are being offered robust levels of job protection. The true peculiarity and advantage of the Danish system lies in the fact that Denmark invests heavily in both passive and active labour market policies. It does not lie with employers having the possibility of easy firing.”

    Attraverso il sitema della Contrattazione Collettiva, i lavoratori Danesi hanno beneficiato di un livello “robusto” di protezione lavorativa.

    La vera peculiarità e vantaggio del sistema Danese stà nel fatto che lo Stato Danese investe pesantemente in politiche del lavoro attive e passive.
    Tale vantaggio non deriva dal fatto che esista la possibilità per i lavoratori di essere licenziati.

    Invece sull’esportabilità del modello Danese:

    CONCLUSION
    [..]
    While Denmark‟s social welfare institutions became a national strategy to invest in creating a well-trained and flexible workforce, it was not the product of a deliberate or recent policy plan. This makes Danish flexicurity impossible to export in a single step to other contexts where other institutional preconditions prevail. This is not to say that rapidly developing middle-income countries or other OECD members may not be inspired by the European welfare policy discourse in general, or by Danish flexicurity specifically.[..]

    Daemmrich, Arthur, and Thomas Bredgaard. “The Welfare State as an Investment Strategy: Denmark’s Flexicurity Policies.” Chap. 7 in The Oxford Handbook of Offshoring and Global Employment, edited by A. Bardhan, D. Jaffee, and C. Kroll, 159–179. Oxford University Press, 2013.

    Sono interessanti inoltre, alcuni dibattiti su questo tema che sembra ricorrere , fra i cosiddetti giovani ichini,Ichino stesso(8 legislature nel PCI che si considera epurato dal vecchio partito per aver scritto un libro controcorrente), Leonardo e Mazzetta

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