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Taggato: act, jobs, lavoro contratto, precari, precariato, Renzi, tutele crescenti
- Questo topic ha 4 risposte, 2 partecipanti ed è stato aggiornato l'ultima volta 9 anni, 1 mese fa da Anonimo.
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24 Febbraio 2015 alle 4:45 pm #12384AnonimoInattivo
Diritto del Lavoro, parte 2: chi sono i precari?
Visto l’interesse della materia, ho deciso di scrivere qualcosa sul precariato, sempre dal punto di vista del diritto del lavoro.
Tutti ne hanno sentito parlare, ma penso che pochi sappiano di cosa realmente si tratti.
Vorrei anche sfatare alcuni luoghi comuni.
Prima di tutto, non è vero che il precariato sia venuto alla luce con il Decreto Biagi, in realtà era già stato disciplinato dal cd. Pacchetto Treu e, in verità, rapporti più o meno precari sono sempre esistiti.
Perché li definiamo precari?
A mio parere li definiamo così in quanto accumunati dalla mancanza di stabilità che è tipica del rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Tuttavia, a parte questo elemento che hanno in comune, sono tra loro molto diversi.
Ci sono alcuni casi, come il lavoro in nero o le finte partite iva, in cui si è al limite dello schiavismo, mentre ci sono i casi dei contratti a tempo determinato o di quelli in somministrazione in cui, fatta eccezione per la durata dei rapporti, si hanno tutte le garanzie del rapporto di lavoro standard.
Probabilmente il tipo di contratto più conosciuto, tra quelli precari, è il contratto a progetto. Introdotto dal Decreto Biagi, si tratta di una mera riformulazione delle vecchie collaborazioni coordinate e continuative, con la differenza che dovrebbero essere collegate a un progetto specifico.
Il contratto a progetto è un rapporto di lavoro autonomo, che dovrebbe essere utilizzato da quei professionisti non iscritti a ordini professionali o non dotati di partita iva.
Si potrebbe discutere se possa esistere in natura un professionista del genere.
Il fatto è che il contratto a progetto nasconde sempre un rapporto di lavoro subordinato.
Almeno nella mia esperienza non ho mai visto contratti di tal tipo che si riferissero a veri consulenti.
Quindi si tratta di rapporti che, invece di essere disciplinati da contratti di lavoro subordinato, sicuramente più onerosi per il datore, vengono regolati come se fossero di lavoro autonomo. Va detto che la legge Biagi ha previsto delle tutele, per esempio la trasformazione di diritto del contratto in rapporto di lavoro a tempo determinato, se il progetto sia inesistente. Mi pare del tutto evidente che operatori di call center, magazzinieri o segretarie, assunte con tale tipo di contratto non possano certo essere considerati lavoratori autonomi impegnati a sviluppare dei progetti specifici per conto di un committente. Discorso analogo vale per le partite iva o anche per il lavoro in nero.
Anche prima della Biagi la giurisprudenza e la dottrina avevano individuato i cd. indici indicatori della subordinazione, che alla fine consistono essenzialmente nella sottoposizione del prestatore al potere direttivo sostanziale del datore di lavoro, a prescindere dalla forma assunta dal rapporto.
Non è sempre facile fornire tale dimostrazione, ma tuttavia le sentenze, nel corso degli anni hanno cominciato a moltiplicarsi, e quindi si è consolidato questo filone, relativo alla “qualificazione del rapporto di lavoro”. In quest’ambito la posizione dei lavoratori a progetto è migliore di quelli a partita iva: infatti, in forza della Biagi, a loro basta contestare l’inesistenza del progetto, gravando sul committente-datore di lavoro l’onere di dimostrare che il progetto sia veritiero. Nel caso di partite iva e nero, invece, è il prestatore che deve dimostrare la sussistenza del rapporto subordinato. Non si tratta, comunque, di un’impresa impossibile, visto che poi tali rapporti, nel corso del tempo, producono molte prove che il prestatore potrà utilizzare a proprio vantaggio. Tipiche sono le comunicazioni scritte del datore di lavoro, oppure la tipologia delle retribuzioni, ecc.
Non mi soffermo sul rapporto di lavoro a tempo determinato, perché non lo considero una forma di sfruttamento tanto bieca come quella relativa ai contratti di cui ho appena scritto. In ogni caso, una successione di contratti a tempo determinato, nel corso del tempo, nasconde spesso un rapporto continuativo. Anche qua, se fornisce le prove, il prestatore può ottenere la conversione del rapporto per via giudiziale. Va rilevato che la disciplina speciale per questo tipo di rapporti prevede alcune regole molto rigorose, la cui violazione determina la trasformazione di diritto del rapporto. Un altro contratto molto diffuso, che non costituisce necessariamente una forma di sfruttamento molto bieco, è quello in somministrazione. La particolarità di tale contratto è che presenta tre parti: il prestatore, l’impresa fornitrice e quella utilizzatrice. In pratica l’impresa fornitrice, che deve possedere un’autorizzazione specifica a svolgere tale attività, invia dei lavoratori, per un certo periodo di tempo, presso la sede dell’impresa utilizzatrice. Il contratto resta comunque di lavoro subordinato, con tutte le garanzie previste dalla contrattazione collettiva. La disciplina legislativa è molto rigorosa: le violazioni delle prescrizioni, oltre a sanzioni pecuniarie, comportano spesso la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con l’impresa utilizzatrice. Al di fuori delle ipotesi previste dalla legge, la somministrazione o appalto di manodopera è illegale, anche se molto diffuso in alcuni settori specifici, come quello informatico. L’appalto illecito di manodopera viene sanzionato con la costituzione di un rapporto a tempo indterminato tanto con la fornitrice quanto con l’utilizzatrice.
Nel 2010, il governo di allora ottenne l’approvazione in parlamento del cd. Collegato Lavoro, che mirava a ostacolare le controversie di qualificazione del rapporto. Infatti fino a quel momento valeva la regola della prescrizione di cinque anni, termine entro il quale il precario poteva impugnare il rapporto di lavoro irregolare. Anche se lungo tale termine consentiva al prestatore di continuare a svolgere la propria attività, tra un rinnovo e un altro, potendo impugnare il rapporto quando esso era ormai definitivamente cessato. Il Collegato, invece, estendeva alle controversie di qualificazione lo stesso termine di decadenza previsto per il licenziamento: sessanta giorni dalla conclusione dell’ultimo contratto, costringendo così molti precari a rinunciare alle azioni giudiziali per timore di perdere un possibile rinnovo. Fortunatamente tale termine, nel 2012, è stato portato a centoventi giorni dalla riforma Fornero.
L’impugnativa può essere stragiudiziale, ma, come per il licenziamento, il giudizio deve essere introdotto entro i successivi sei mesi.
Cosa accade quando si vince una causa di qualificazione del rapporto? Non solo s’instaura un rapporto a tempo indeterminato in capo al datore di lavoro imbroglione, ma si ha diritto a percepire tutte le differenze retributiva fin dall’inizio del rapporto di lavoro, perché il rapporto si considera, sin dall’inizio, a tempo intederminato.
Quindi la violazione delle disposizioni in materia di contratti di lavoro possono essere anche contestate dagli ispettori del lavoro, che, oltre a irrogare sanzioni pecuniarie e a presentare esposti alla procura della repubblica, possono, anche ordinare la regolarizzazione del contratto.
Cosa accadrà ai precari con il nuovo decreto? Per i precari “di lusso” poco, sono state abrogate alcune disposizioni che rendevano più difficile il ricorso a tali tipologie contrattuali. Peggiorata la posizione dei lavoratori? Secondo alcuni si, secondo altri no. Vedremo con il tempo. Il decreto ha comunque sfoltito il numero dei contratti di lavoro. Almeno nelle intenzioni, tutti quei contratti non previsti dal testo legislativo dovrebbero essere risultare soppessi, tuttavia bisognerà poi vedere, in pratica, quale sarà l’effetto abrogativo in concorrenza con le altre norme. Eventuali difetti potranno sempre essere corretti.
Il grande cambiamento dovrebbe invece avvenire per gli altri rapporti precari.
I contratti a progetto, un po’ il simbolo dello sfruttamento di una generazione, se mi consentite questo giudizio di valore, dovrebbero essere superati. Comunque non potranno più esistere dopo il 31 dicembre, come tutte le altre forme di collaborazione che presentino i parametri che, secondo il decreto, indicano la presenza di un rapporto di lavoro subordinato: tali sono le “prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, di contenuto ripetitivo e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”.
Dopo il 31 dicembre tutti coloro che si trovino in tale situazione potranno richiedere la qualificazione del rapporto di lavoro, con tutte le differenze retributive fin dall’inizio del rapporto e, ovviamente, con i relativi contributi previdenziali.
Se il datore di lavoro, prima del 31 dicembre, vorrà regolarizzarli, potrà beneficiare di una sostanziale sanatoria sulle sanzioni amministrative e, purchè vi sia esplicita rinuncia in tal senso da parte del lavoratore in sede conciliativa, anche essere esentato dal pagamento delle differenze retributive e contributive previdenziali, a condizione che non licenzi il prestatore di lavoro nei successivi dodici mesi per motivi economici.
In pratica, un lavoratore a progetto o finta partita iva, che dovrebbe fare, una volta che il decreto sarà ufficialmente legge dello Stato?
Se il datore di lavoro vuole approfittare della sanatoria e regolarizzare subito, converrebbe accettare, anche se questo comporta la rinuncia alle differenze pregresse, ma se la priorità è la stabilizzazione del rapporto mi sembra la decisione più saggia.
Negli altri casi meglio aspettare la conclusione naturale del rapporto o la scadenza del 31 dicembre e richiedere la qualificazione del rapporto al datore: se questi sarà disponibile, accettare comunque un compromesso sulle differenze pregresse, altrimenti impugnare il rapporto e chiedere tutto.25 Febbraio 2015 alle 8:18 pm #12387AnonimoInattivoIl testo della Treu: http://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:1997;196
Il testo della Biagi: http://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:decreto.legislativo:2003-09-10;276!vig=
3 Marzo 2015 alle 10:52 am #12407AnonimoInattivoAlcuni punti di vista , leggermente diversi in merito agli effetti del Jobs Act , da parte di giuristi ed addetti ai lavori.
In coda anche le richieste unanimi dei membri PD della Camera ( ma anche quelli del Senato) inerenti la modifica di alcuni punti al limite del kafkiano.Se se ne ha voglia, si consiglia di leggere interamente gli articoli e non fermarsi agli estratti.
Si coglieranno perlomeno le complicazioni che questa semplificazione “unilaterale” si vanta di risolvere.E si apprezzerà, come sostanzialmente l’inno contro la precarietà, è in realtà la cristallizzazione della stessa.
“E’ prevedibile che si scatenerà il dibattito, tra i giuristi e in giurisprudenza, su cosa significhi l’espressione
richiamata, la quale ha la chiara finalità di limitare l’apprezzamento da parte del giudice di elementi di
carattere giuridico della condotta contestata al lavoratore.
[…]
Resta un fatto, assai grave, che la disciplina del decreto (a differenza di quanto accade nell’art. 18 stat. lav.) esclude la
possibilità della reintegrazione quando il licenziamento è giudicato ingiusto per un difetto di proporzionalità
tra la condotta contestata (ed effettivamente tenuta dal lavoratore) e la sanzione espulsiva, e addirittura
quando per quella condotta il codice disciplinare applicato nell’impresa, sulla base di quanto previsto dalcontratto collettivo, preveda espressamente che il datore di lavoro debba applicare una sanzione
conservativa! (una multa o una sospensione dal lavoro e dalla retribuzione).”
Qualcuno imperterrito, però continua a riportare il codice disciplinare dell’azienda X o il CNL della stessa, ritenendola una spiegazione sufficente.____________________
Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo e per giusta causa in cui sia dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto al quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro.
Pertanto pare non possa esservi reintegrazione anche quando il giudice riterrebbe il fatto non meritevole della sanzione espulsiva: in casi del genere, che peraltro costituiscono parte notevole del contenzioso, il giudice potrà applicare solo la sanzione dell’indennizzo.Quanto alla l’estraneità di ogni valutazione da parte del giudice circa la sproporzione del licenziamento ,ciò va contro al principio fondamentale dei sistemi disciplinari per cui ogni sanzione deve essere proporzionata alla gravità del fatto.
Dobbiamo perciò concludere che anche questo provvedimento legislativo presenta punti di difficile interpretazione._____________________________________________
Contraddizioni e nuova disparità, al limite della Costituzioanlità , secondo gli Autori:
__________________________________________________
E con una formula, che riecheggia, anche sul piano lessicale, le parole dette nella sentenza ha stabilito (art. 3, 2° comma ) che il giudice debba disporre la reintegra esclusivamente in caso di “insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”.
Non si può dire, questa volta, che il legislatore non fosse avvertito, o che ignorasse cosa vi sia dietro questa formula. Se l’ha utilizzata dovrebbe ritenersi allora che l’abbia fatto con cognizione di causa; sapendo e volendo autorizzare i risultati che essa è in grado di conseguire.
Perciò nel nuovo modello di contratto a tutele crescenti la mancanza di elemento soggettivo, o di antigiuridicità, o di rilevanza disciplinare, o la presenza di forza maggiore, dovrebbe condurre de plano all’estinzione del rapporto con tutela indennitaria (nel limite da 4 a 24 mensilità) poiché si tratta di casi che non comportano il venir meno del fatto nella sua dimensione materiale. Nel nuovo regime pertanto il discrimine tra la tutela reale ed un indennizzo anche di sole 4 mensilità passerebbe soltanto dalla circostanza che il datore di lavoro abbia addossato al lavoratore un fatto materiale vero; se poi egli non ne sia responsabile sul piano soggettivo o addirittura per irrilevanza del fatto, non dovrebbe avere alcun peso ai fini della tutela reintegratoria.
[…]
Anche la nuova disciplina della mancanza di proporzionalità del licenziamento disciplinare suscita pesanti perplessità. Secondo la chiara lettera della norma (art. 3) del decreto attuativo della delega, la mancanza di proporzionalità del licenziamento preclude al giudice di accordare la tutela reintegratoria (“resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”). Difficile non evidenziare anche qui alcuni aspetti di irrazionalità. Soprattutto quante volte il codice disciplinare preveda per quel comportamento una mera sanzione conservativa (ad es. un rimprovero) il giudice che dichiari l’illegittimità del licenziamento non potrà comunque accordare la reintegra.http://www.altalex.com/index.php?idnot=70506
_____________________
http://www.altalex.com/index.php?idnot=70447
http://www.studiocataldi.it/news_giuridiche_asp/news_giuridica_17295.asp
________________________
“Il contratto a tutele crescenti è fatto per costare poco ma solamente per i suoi primi tre anni di vita, grazie alla decontribuzione della recente legge di stabilità (l. n. 190 del 2014), per morire quindi al loro scadere e, per di più, con ricadute economiche per l’impresa se alla sua morte non c’è valida spiegazione; il contratto a termine, viceversa, è fatto per vivere tre anni e per morire al loro scadere senza alcuna giustificazione e senza alcun costo per l’impresa.”
http://www.ildiariodellavoro.it/adon.pl?act=doc&doc=54293#.VO2kuNSG9pg
________________________________________________
P. Maestri (membro PD della commissione Lavoro)
“Richiama, in particolare, l’estensione ai licenziamenti collettivi della nuova disciplina in materia di licenziamenti, nonché il mancato riferimento, per quanto attiene alla definizione delle fattispecie che danno titolo alla reintegrazione nel posto di lavoro nel caso di licenziamenti disciplinari illegittimi, ai casi di licenziamento in presenza di comportamenti per i quali la contrattazione collettiva e i codici disciplinari prevedono sanzioni di tipo conservativo. ”
Anna Giacobbe ( PD ,membro di Commissione):
Ritiene quindi opportuno ragionare sulla questione dei licenziamenti disciplinari, affinché sia ripristinata una maggiore proporzionalità tra fatto e sanzione, assicurando la reintegrazione nel posto di lavoro nel caso di licenziamenti per comportamenti di poca rilevanza
Luisella Albanella ( PD , membro di commissione)
Giudica altresì importante valutare con attenzione la questione dei cambi di appalto, nella quale è in gioco il mantenimento delle condizioni economiche e normative dei lavoratori, nonché quella dei licenziamenti disciplinari, richiamando l’esigenza di valutare la reintroduzione di criteri di proporzionalità tra la sanzione del licenziamento e la gravità del fatto commesso dal lavoratore. Auspica, in conclusione, che su tali questioni sia possibile apportare modifiche al testo.
Di altri espertoni si è già detto.
Catalogare queste posizioni come surrettizie,falsate all’origine, è qualcosa che rasenta un aspetto religioso.http://www.ildiariodellavoro.it/adon.pl?act=doc&doc=54278#.VPMZDNTf95Q
3 Marzo 2015 alle 10:52 am #12408AnonimoInattivoAlcuni punti di vista , leggermente diversi in merito agli effetti del Jobs Act , da parte di giuristi ed addetti ai lavori.
In coda anche le richieste unanimi dei membri PD della Camera ( ma anche quelli del Senato) inerenti la modifica di alcuni punti al limite del kafkiano.Se se ne ha voglia, si consiglia di leggere interamente gli articoli e non fermarsi agli estratti.
Si coglieranno perlomeno le complicazioni che questa semplificazione “unilaterale” si vanta di risolvere.E si apprezzerà, come sostanzialmente l’inno contro la precarietà, è in realtà la cristallizzazione della stessa.
“E’ prevedibile che si scatenerà il dibattito, tra i giuristi e in giurisprudenza, su cosa significhi l’espressione
richiamata, la quale ha la chiara finalità di limitare l’apprezzamento da parte del giudice di elementi di
carattere giuridico della condotta contestata al lavoratore.
[…]
Resta un fatto, assai grave, che la disciplina del decreto (a differenza di quanto accade nell’art. 18 stat. lav.) esclude la
possibilità della reintegrazione quando il licenziamento è giudicato ingiusto per un difetto di proporzionalità
tra la condotta contestata (ed effettivamente tenuta dal lavoratore) e la sanzione espulsiva, e addirittura
quando per quella condotta il codice disciplinare applicato nell’impresa, sulla base di quanto previsto dalcontratto collettivo, preveda espressamente che il datore di lavoro debba applicare una sanzione
conservativa! (una multa o una sospensione dal lavoro e dalla retribuzione).”
Qualcuno imperterrito, però continua a riportare il codice disciplinare dell’azienda X o il CNL della stessa, ritenendola una spiegazione sufficente.____________________
Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo e per giusta causa in cui sia dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto al quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro.
Pertanto pare non possa esservi reintegrazione anche quando il giudice riterrebbe il fatto non meritevole della sanzione espulsiva: in casi del genere, che peraltro costituiscono parte notevole del contenzioso, il giudice potrà applicare solo la sanzione dell’indennizzo.Quanto alla l’estraneità di ogni valutazione da parte del giudice circa la sproporzione del licenziamento ,ciò va contro al principio fondamentale dei sistemi disciplinari per cui ogni sanzione deve essere proporzionata alla gravità del fatto.
Dobbiamo perciò concludere che anche questo provvedimento legislativo presenta punti di difficile interpretazione._____________________________________________
Contraddizioni e nuova disparità, al limite della Costituzioanlità , secondo gli Autori:
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E con una formula, che riecheggia, anche sul piano lessicale, le parole dette nella sentenza ha stabilito (art. 3, 2° comma ) che il giudice debba disporre la reintegra esclusivamente in caso di “insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”.
Non si può dire, questa volta, che il legislatore non fosse avvertito, o che ignorasse cosa vi sia dietro questa formula. Se l’ha utilizzata dovrebbe ritenersi allora che l’abbia fatto con cognizione di causa; sapendo e volendo autorizzare i risultati che essa è in grado di conseguire.
Perciò nel nuovo modello di contratto a tutele crescenti la mancanza di elemento soggettivo, o di antigiuridicità, o di rilevanza disciplinare, o la presenza di forza maggiore, dovrebbe condurre de plano all’estinzione del rapporto con tutela indennitaria (nel limite da 4 a 24 mensilità) poiché si tratta di casi che non comportano il venir meno del fatto nella sua dimensione materiale. Nel nuovo regime pertanto il discrimine tra la tutela reale ed un indennizzo anche di sole 4 mensilità passerebbe soltanto dalla circostanza che il datore di lavoro abbia addossato al lavoratore un fatto materiale vero; se poi egli non ne sia responsabile sul piano soggettivo o addirittura per irrilevanza del fatto, non dovrebbe avere alcun peso ai fini della tutela reintegratoria.
[…]
Anche la nuova disciplina della mancanza di proporzionalità del licenziamento disciplinare suscita pesanti perplessità. Secondo la chiara lettera della norma (art. 3) del decreto attuativo della delega, la mancanza di proporzionalità del licenziamento preclude al giudice di accordare la tutela reintegratoria (“resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”). Difficile non evidenziare anche qui alcuni aspetti di irrazionalità. Soprattutto quante volte il codice disciplinare preveda per quel comportamento una mera sanzione conservativa (ad es. un rimprovero) il giudice che dichiari l’illegittimità del licenziamento non potrà comunque accordare la reintegra.Ichino dixit:
Questa essendo la ratio della disposizione, si capisce che la sanzione della reintegrazione si applichi solo là dove il fondamento dell’accusa (quella mossa al datore) risulti compiutamente provato; e che l’onere della prova in proposito gravi sulla parte che muove l’accusa, cioè in questo caso il lavoratore”
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“Il contratto a tutele crescenti è fatto per costare poco ma solamente per i suoi primi tre anni di vita, grazie alla decontribuzione della recente legge di stabilità (l. n. 190 del 2014), per morire quindi al loro scadere e, per di più, con ricadute economiche per l’impresa se alla sua morte non c’è valida spiegazione; il contratto a termine, viceversa, è fatto per vivere tre anni e per morire al loro scadere senza alcuna giustificazione e senza alcun costo per l’impresa.”
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P. Maestri (membro PD della commissione Lavoro)
“Richiama, in particolare, l’estensione ai licenziamenti collettivi della nuova disciplina in materia di licenziamenti, nonché il mancato riferimento, per quanto attiene alla definizione delle fattispecie che danno titolo alla reintegrazione nel posto di lavoro nel caso di licenziamenti disciplinari illegittimi, ai casi di licenziamento in presenza di comportamenti per i quali la contrattazione collettiva e i codici disciplinari prevedono sanzioni di tipo conservativo. ”
Anna Giacobbe ( PD ,membro di Commissione):
Ritiene quindi opportuno ragionare sulla questione dei licenziamenti disciplinari, affinché sia ripristinata una maggiore proporzionalità tra fatto e sanzione, assicurando la reintegrazione nel posto di lavoro nel caso di licenziamenti per comportamenti di poca rilevanza
Luisella Albanella ( PD , membro di commissione)
Giudica altresì importante valutare con attenzione la questione dei cambi di appalto, nella quale è in gioco il mantenimento delle condizioni economiche e normative dei lavoratori, nonché quella dei licenziamenti disciplinari, richiamando l’esigenza di valutare la reintroduzione di criteri di proporzionalità tra la sanzione del licenziamento e la gravità del fatto commesso dal lavoratore. Auspica, in conclusione, che su tali questioni sia possibile apportare modifiche al testo.
Di altri espertoni si è già detto.
Catalogare queste posizioni come surrettizie,falsate all’origine, è qualcosa che rasenta un aspetto religioso.3 Marzo 2015 alle 11:41 am #12410AnonimoInattivoErrata corrige : le nuove disparità, anche incostituzionali , secondo alcuni Autori, si possono leggere qui
Mi scuso inoltre per la ripetizione del commento, se vuole il moderatore ,potrà cancellare la RISPOSTA #12407
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