“Da solo non ce la faccio” (cit)

Io non lo so se Grillo stia improvvisando o se dietro abbia una precisa e quindi precostituita strategia, quello che è certo è che se sta improvvisando lo sta facendo in una maniera che lo porta a offrire alla critica i passi di quella che appare a tutti gli effetti come una precisa, e tutt’altro che superficiale, strategia per la costruzione, prima, e capitalizzazione, poi, del consenso fatta di scelte che restituiscono una sequenza troppo perfetta per dirla casuale.
Stiamo parlando di una fase di quell’evoluzione della pratica politica italiana che non va ricondotta al solo Grillo (inteso come soggetto e progetto) ma all’intera evoluzione della società della quale Grillo è solo uno dei passaggi e che, in quanto evoluzione sociale, sta a Grillo come il Pò sta a uno dei suoi tanti affluenti.
Grillo è la sintesi successiva di ciò che fu Berlusconi nei due decenni di trasformazione sociale che ha prodotto, a sua volta sintesi di ciò che lo precedette e rese quindi possibile.

È come se a partire dagli anni ’80, quelli che per chi se li ricorda furono battezzati gli anni dell’edonismo reaganiano, si fossero sviluppati due percorsi opposti e paralleli, l’uno sia linfa che espressione dell’altro.
Mentre la società civile (il “cittadino”) concentrava le proprie energie in progetti progressivamente sempre più circoscritti al confine del personale, parallelamente la società politica (i “partiti”) evolveva il proprio percorso in una direzione che prendeva il (proprio) personale per renderlo sempre più generale.
Il primo percorso ha visto i cittadini attenuare, fino a spegnerla, la necessità di inseguire un progetto di futuro, per sua natura necessariamente collettivo, per dedicarsi a un più redditizio progetto di presente, che si differenzia dai progetti di futuro proprio nel punto in cui solo al secondo è data la possibilità di realizzarsi anche (e nella sua versione distruttiva soltanto) all’interno del personale vissuto di chi vi si è dedicato.
Il futuro non ci apparterrà nemmeno quando potremo andare a toccarlo viaggiando nel tempo, il presente ci appartiene persino se non lo viviamo o se lo viviamo in una maniera che non lo fa appartenere davvero a noi.
È la razione K che ‘sto pianeta dell’età di qualche milione di anni ha deciso di concedere a chiunque passi sul suo suolo per l’equivalente di uno starnuto, la piccola soddisfazione di averlo fatto al meglio delle nostre possibilità comunque si concluda e là dove ci fosse dolo nel non aver utilizzato al meglio le nostre possibilità ti arriva in soccorso la chiesa con l’estrema unzione, se all’ultimo minuto si pente si salva persino chi ha sciolto bambini nell’acido figurati se non ci vado io in paradiso, dovesse mai esistere, nonostante le stronzate che ho fatto.
Miocuggino dico.
E se poi nemmeno esiste capisci bene che l’unico elemento che (comunque mai più di un paio di volte nella vita) ti ha suggerito almeno, almeno, di contare fino a dieci, viene decisamente meno.
Salti nel buio, adrenalina, nessun prezzo, c’è stato il paradiso per un pezzo di strada e vaffanculo, a molti tanto basta e quei molti sono anche i preti perché possono venire lì e dirti “Visto che c’era?”, tutti concordi, il paradiso appunto.
Come poteva non essere la naturale evoluzione dell’umanità?

Poi starnutisci e vedi gli anni ’80 con quella direzione verso la quale la maggior parte della popolazione andò spinta da necessità, quasi fisiologica, di manifestarsi, più che di quel manifestare che caratterizzò il decennio precedente dei ’70, nei quali se eri donna eri LE donne, se eri di destra eri LA destra, se eri comunista eri IL comunismo; uno schema sociale che a fronte della promessa di un futuro felice chiedeva il prezzo del sacrificio della propria individualità anche e nonostante si presentasse come il suo esatto contrario e cioè come l’istituzionalizzazione del valore individuale e libertà conseguenti.
Non mi interessa che ci sia tu, mi interessa esserci io poteva tranquillamente essere lo slogan di una racchetta fulmina zanzare o di un brillante da venti fantastiliardi, in entrambi i casi avrebbe venduto, vendeva qualsiasi cosa quell’intuizione negli anni ’80, qualcuno intuì anche la politica, se solo si fosse trovato il modo di renderla prodotto al pari di una racchetta e (non O) di un brillante (nella sostituzione della O con una E rivelò il genio).
Un progetto individuale sul quale il collettivo non avrebbe quindi mai potuto prevalere, non potendo rispondere altrettanto efficacemente alla necessità che il primo al contrario soddisfava per sua stessa natura e cioè il bisogno, innato e appunto fisiologico, di vivere ogni giorno con la consapevolezza, vinse chi la rese tangibile, che tra noi e il nostro progetto può esserci soltanto l’autodeterminazione o il suo nemico (che divenne così il TUO nemico, aprendo la strada a quel liberismo che nei decenni successivi ne fece ariete per aprirsi varchi ampi come mai ne ebbe nei decenni precedenti), nient’altro e che questo avviene sia che tu sia racchetta fulmina zanzare sia che tu sia brillante da venti fantastiliardi.
Mentre tutto questo trasformava la forma stessa della nazione, lo stato rispondeva sostituendo l’obiettivo del suo braccio operativo, fino a quel momento un progetto di società futura, con l’identificazione nel cittadino loro contemporaneo.
Prima: il cittadino a inseguire l’ideale, dopo: l’ideale a inseguire il cittadino.
Un’inversione a U, uno choc per la società, una rivoluzione di senso che non poteva che generarne per necessità una di linguaggio, bisognava capirci qualcosa per sopravviverle.

Non stiamo parlando di ieri o ieri l’altro, stiamo parlando di un arco temporale di decenni come ogni evoluzione collettiva richiede, un percorso il cui punto di svolta, quello che indirettamente lastricò d’oro le strade verso il futuro ai Berlusconi e ai Grillo, fu il giorno in cui le telecamere spedirono sulle tavole della cena di milioni di satolli cittadini la DC, il grande progetto politico di trasformazione del paese, fatto a forma di un corpo piegato dentro un baule di una R4 rossa.
Lo Stato, così più grande di noi, quella sera fracassò gli schermi delle tv per piombare sui tavoli tra i ravioli e l’insalata grande quanto noi, anzi più piccolo, tanto da stare in un baule, tanto da non muoversi, tanto da essere morto, ed era bastato un solo uomo per sparargli.
Quale idea di collettivo poteva non morire quel giorno, insieme allo stato fattosi così uomo solo?
Questo dissolse il terrorismo, non altro, l’aver segato il ramo sul quale stava seduto.
Moretti quel giorno sparando a Moro sparò a ogni singolo brigatista ma alle gambe; restarono vivi, ma senza più un perché uguale per tutti.
Quel giorno cambiò la storia e la politica si trasformò definitivamente in un “discorso” non più fatto di ideali di futuro, ma fatto di corpo tangibile, di empatia, di identificazione sempre più fisica, perché lo Stato si era fatto a nostra dimensione anche nella morte, di chi stava di qua e di chi stava di là.
Un cambiamento che impose ai partiti una metamorfosi alla quale certo non erano preparati ma alla quale non poterono sottrarsi, una metamorfosi che impose l’individuazione di figure precise, fisiche, singole, sulle quali concentrare quelle leve così nuove ma così necessarie per creare aggregazione e quindi consenso.
Nello stesso momento storico in cui l’unica certezza fu che un altro Moro non sarebbe mai più stato possibile, i partiti si trovarono obbligati a dotarsi ciascuno di quanto più vicino a un Moro riuscissero a inventarsi.
A concedere il lusso di potersi permettere di sceglierlo guascone e sorridente ci pensò la caduta del ramo di cui sopra e la violenta necessità di dimenticare.
E se poteva essere un guascone, data la necessità di cui sopra allora DOVEVA essere un guascone.
Quella sera quella stessa tv ci spedì sul tavolo lo Stato uguale a noi come uguale a noi fu quella sera Moro, ma vivo, contento di esserlo e con quella giusta puntina di faccia da teppa che tutti in cuor proprio sapevano di avere o di desiderare, ma sempre attenti a tenere la foto di famiglia sullo scaffale, proprio uno di noi, uguale uguale, in più ci portava lui sia i ravioli che l’insalata per scusarsi per averci fracassato la tv, che comunque ci avrebbe ricomprato subito e l’insalata ci restava pure.
Non gli consegni le chiavi di casa a uno così? L’Italia gliele consegnò.

Starnutisci e arrivi a oggi, mentre il pianeta in sala di proiezione si sta facendo delle risate che la metà basta guardando questi qui che dicono di non aver bisogno di imparare qualcosa da lui.
Oggi il presente non è più il progetto scelto tra i due, non so cosa resterà di quegli anni ’80 ma di sicuro non la possibilità di scegliere tra presente e futuro.
Oggi il presente è l’unico progetto disponibile proprio per scelta fatta da chi in quegli anni al passaggio del treno scelse di perderlo.
E quando gli elementi di una scelta diventano meno di due viene meno il concetto di scelta, che si porta dietro il concetto di progetto, che si porta dietro il concetto di futuro.
Io qui e ora, il resto può bruciare, brucerà comunque.
A concedere alla società politica il lusso di potersi permettere di vestirsi da incendiario, ci ha pensato l’alibi della non scelta, che l’ha trasformata da risposta futura a domanda presente: incendio perché me lo chiedi tu, sarò tanto a tua misura da essere te, questo è il mio corpo, questo è il tuo corpo, la novità è che sto indicando sempre lo stesso corpo.
L’evoluzione ulteriore del concetto di identificazione in una forma ancora più fisica, così fisica da essere il tuo stesso fisico attraverso l’attivazione di quella formidabile leva che è l’empatia, il cui potenziale aggregante fu soltanto sfiorato da Berlusconi che pure ne intuì e quindi utilizzò il potere politico, per trovarsi per naturale evoluzione in questo oggi nel quale l’identificazione ha scollinato ed è passata direttamente nel campo del riconoscimento di sé stessi.
L’empatia presuppone trasmittente e recettore e consente al secondo di non essere coinvolto dal (e nel) primo, il riconoscimento nell’altro è come la scelta che si dissolve quando gli elementi sono meno di due, è la riduzione del numero dei corpi a meno di due, trasmittente e recettore resi inutili dall’assenza della necessità di comunicare.
Io so che tu sai che io so perché siamo un unico corpo, non dobbiamo dirci altro.
È il ventennio del silenzio, ti chiedo un parere ma senza realmente farlo e tu ti dici d’accordo senza avermi chiesto su cosa, io so che tu sai che io so, non dobbiamo dirci altro, quel Diretta che mettiamo dopo quel Democrazia vuole dire semplicemente questo, io e te siamo diretti, siamo collegati, non serve nemmeno che ce lo diciamo e se non serve che ci diciamo i princìpi figurati quanto è inutile dirsi i dettagli, non serve parlare quando si è uno stesso corpo.
Una semplificazione estrema che ha permesso a milioni di persone di “fare” politica senza averlo mai fatto, perché non tutti sono dotati di informazioni e di capacità di elaborarle in un progetto, ma certamente tutti sono dotati di un corpo.
E quando hai un corpo hai piacere, hai paura, hai sentimenti, soprattutto hai forza e voglia di usarla.
E se capiti in un ventennio che nella razione K, a differenza degli anni ’80 nei quali c’era l’indulgenza plenaria laica, ti ci mette la rabbia, l’incrocio con quella forza diventa il fisiologico 2.0.
Quando identifichi te stesso in un altro corpo, trasferisci 1:1 in quel corpo tutto ciò che è il tuo e, viceversa, fai tue tutte le migliori componenti del corpo in cui ti sei identificato, al prezzo di fare tue anche le peggiori.
Se sei nella fase fisiologicamente attivata dal connubio tra rabbia e forza, accade esattamente il contrario: fai tue le peggiori componenti del corpo in cui ti identifichi perché quella era la necessità che dovevi soddisfare, al prezzo di fare tue anche le migliori, con l’unica cautela di ricordarti che se scegli con accortezza e trovi uno che non ne ha sei proprio a posto e sarete davvero una cosa sola.

Starnutisci e ti ritrovi Grillo, quel che si dice una manna dal cielo, non devi nemmeno cercarlo, te l’ha recapitato il pianeta che non sa più cosa inventarsi per sbellicarsi dalle risate.
Quel “da solo non ce la faccio”, così come il precedente “Non lasciatemi solo” quando invocò la calata su Roma per imporre il PdR scongelato e miracolato prima che una telefonata gli suggerisse di inventarsi il traffico come impedimento a esserci, sono tutt’altro che frasi buttate lì, sono precisi richiami non all’appuntamento del giorno, che è solo specchietto per allodole, ma a quell’idea di corpo unico anche e proprio in termini di dimensione mostrato da sempre come l’unica possibilità di contrastare il nemico sempre non a caso rappresentato da altrettanti corpi sin(g/b)oli: la casta, la finanza, le multinazionali, noi e loro, A e B, noi tutti corpo A, loro tutti corpo B, Strega Comanda Color al confronto è attività da pensiero complesso anche solo per il fatto che di scelte ne ha più di due, tanto per chiudere quel cerchio là sopra.

Il problema è che il futuro non dipende da noi e quindi può davvero scendere ancora e se non ce la fa lui da solo, che ha attraversato a nuoto lo stretto di Messina, figuriamoci noi che la sfida più grande che abbiamo affrontato è stata piangerci un paio di morti e cercare, generalmente invano, il modo di perdonarci per aver tradito un amico.
Sempre miocuggino, dico.
Quando Che ne puoi sapere te che non sei me, che al massimo ha risolto un paio di traumi, incontra Se non ce la faccio io non ce la fai nemmeno tu, che ha attraversato lo Stretto a nuoto, Che ne puoi sapere te che non sei me chiude gli occhi e conta i secondi chiedendosi “Ma potrebbe essere mai peggio di così?”
Sì.

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