Alzheimer

Come premessa voglio chiarire che scrivo questo articolo nella figura oggi chiamata “care giver” ossia colui che sostiene, segue e assiste una persona affetta da demenza e non come specialista del settore.

 

Con il Decreto ministeriale 20 luglio 2000 sono stati istituiti in Italia i centri UVA, che non hanno niente a che fare con l’enologia, ma sono l’acronimo di Unità di Valutazione Alzheimer “centrati sull’identificazione di unità funzionali basate sul coordinamento delle competenze neurologiche, psichiatriche, internistiche e geriatriche presenti nell’ambito dei dipartimenti ospedalieri e dei servizi specialistici aziendali, della medicina generale e dei servizi di assistenza domiciliare in modo da garantire:

 

• la capacità di valutare il soggetto con disturbi cognitivo – comportamentali seguendo un percorso diagnostico strutturato
• la capacità di mantenere un contatto e un’interazione continua con il medico di famiglia in modo da garantire la continuità delle cure dell’ammalato
• la disponibilità di strutture per l’erogazione dei farmaci anticolinesterasici per il trattamento sintomatico della demenza di Alzheimer”

 

Sempre secondo il sito del Ministero della Salute nel 2010-2012 c’è stato un “importante” processo di riorganizzazione della rete dei servizi socio-sanitari dedicati alla demenza, portando a prevedere “strutture di primo livello più centrate sull’assistenza e strutture specialistiche coinvolte soprattutto nella diagnosi differenziale, portando, tra l’altro, anche ad un cambio di denominazione delle UVA che prefigura un diverso modo di affrontare il problema così come una transizione da una visione centrata sull’Alzheimer ad una più ampia, estesa a tutte le forme di demenze.” Lo stesso Ministero porta gli esempi di Lombardia, Lazio e Sicilia.

 

Belle parole scritte che si scontrano con la realtà che personalmente ho vissuto. Anzitutto la formalità che nonostante le demenze senili siano ormai state identificate in varie forme, il centro da me frequentato continua a chiamarsi UVA e che oltre l’Alzheimer non riesce a dare altri termini, tanto che ancor oggi non so se mia madre è realmente affetta da Alzheimer o da altra forma senile. La capacità di valutare il soggetto e soprattutto seguendo un percorso diagnostico strutturato è mancato fin dall’inizio. In secondo luogo non c’è stata alcuna interazione con il medico di famiglia, cosa che nel mio caso ha provocato non pochi problemi. Ultimo, ma principale, l’erogazione dei farmaci che mi ha delineato l’incapacità, il pressapochismo, o molto più probabilmente la mancanza di formazione idonea alla struttura designata dal Ministero.

 

Ho visto mia zia, che è mancata due anni fa, che aveva l’Alzheimer, con tutti i suoi sintomi. Non riconosceva le persone, il decadimento della memoria, incapace di concentrarsi e di prestare attenzione, la compromissione del ragionamento e del giudizio. Fattori del decadimento neuronale che l’hanno portata alla morte.

 

Tutta questa premessa per raccontare la mia storia: in seguito a ripetute e sempre più gravi mancanze di memoria, ho portato mia madre al centro UVA della mia città. Le è stato somministrato dalla prima visita la Rivastigmina in cerotti giornalieri da 4,6 mg, le è stato chiesto (a lei, non a me, ma a una persona con problemi di memoria) se desiderava essere valutata a sei mesi o dopo un anno. Lei al momento ha detto sei mesi, dopo i quali le hanno aumentato il farmaco a 9,5 mg. Come unico “care giver” di mia mamma, non sono mai stato minimamente informato sul farmaco, solo sul metodo di somministrazione, tantomeno sugli effetti collaterali che poteva provocare, e soprattutto il fatto (come è accaduto) che questo farmaco potesse provocare effetti devastanti e neppure in che percentuale potesse giovare, che, da come successivamente sono stato correttamente aggiornato è abbastanza minima.

 

Sono cominciate le sincopi, gli svenimenti, le perdite di coscienza, le chiamate al 118 con ricovero ospedaliero dal quale risultava che mia madre soffriva di bradicardia sinusale. Contemporaneamente il medico di famiglia ha cominciato una serie di esami, analisi, accertamenti per poter capire la causa di tutto ciò. Ha fatto il suo dovere perché ha indagato su tutto, al costo di farci arrivare al limite della sopportazione per un periodo con due/tre impegni medici settimanali fra esami, appuntamenti o altro (la teorica interazione fra lo specialista ospedaliero e il medico di famiglia che al Ministero basta scrivere su un decreto e che nessuno applica).

 

Ho avuto sospetti sul farmaco, ma la forma di assunzione tramite cerotti me lo figurava (erroneamente) abbastanza innocuo, quindi la ricerca della causa è continuata, fra le paure di mia madre e la mia testardaggine. Ho contattato spesso il centro UVA che “non convinti” mi hanno dato una impegnativa per un controllo cardiologico, nonostante mia mamma non avesse mai sofferto di problemi cardiaci. Purtroppo solo successivamente sono venuto a conoscenza che le sincopi e la bradicardia risultano fra i maggiori effetti collaterali della Rivastigmina (mia mamma arrivava a battiti fra i 30 e i 35) e nonostante ciò, alla successiva visita (sempre da me richiesta) il farmaco non le è stato tolto, ma solo dimezzato e malesseri e svenimenti sono continuati, se pur diminuiti.

 

Alla fine delle analisi e degli accertamenti restava solo quello e mi sono impuntato sul farmaco che ad una successiva visita, sempre su mia richiesta (e ogni volta si presentava un medico diverso) le è stato finalmente tolto. Da quel giorno niente colassi, svenimenti o sincopi. Poi finalmente è arrivata la visita cardiologica e il cardiologo (e non uno dei tanti neurologi del centro UVA) ha definitivamente accertato che le sincopi erano dovute alla Rivastigmina, sottolineando sul referto l’evidenza della sparizione degli svenimenti dopo la sospensione del farmaco.

 

Un periodo infernale che avrebbe potuto essere evitato interrompendo fin da subito la terapia, soprattutto dopo il ricovero tramite 118, sarebbe bastato leggere le due parole sulla lettera di dimissioni, da me presentata ai neurologi: “bradicardia sinusale” e se ci fossero stati quei ministerialmente teorici contatti fra ospedale e medico di base.

 

All’ultima visita, ennesimo medico mai visto, da cui speravo un cambio terapeutico, le è stata prescritta la vitamina E, e come in un ristorante mi è stato risposto “non c’è altro” aggiungendo: “ci rivediamo fra un anno”.

 

Mi sono rivolto successivamente ad uno specialista privato, molto conosciuto e molto apprezzato in città, che mi ha definitivamente confermato che mia mamma è stata un ennesimo caso di malasanità in casi come questo, aggiungendo che in un’altra Regione in cui opera e tiene conferenze il 100% dei pazienti sono insoddisfatti dei centri UVA e a suo parere anche qui la maggioranza non è adeguatamente seguita. Nonostante la fatidica frase “non c’è altro” a mia mamma le ha prescritto un altro farmaco che a mio avviso sta funzionando e non le provoca alcun effetto collaterale. La farmacista, meravigliata, mi ha detto che quel farmaco è mutuabile, purtroppo con il “non c’è altro” l’ospedale non lo ha preso in considerazione e con la prescrizione di un medico privato il farmaco si paga.

 

Oggi mia mamma continua a dimenticare le cose, ma la mia impressione è che stia meglio di un anno fa, non so se dovuto al nuovo farmaco, alla consapevolezza di non avere più sincopi e svenimenti, la cui paura è durata diversi mesi, al non dover più entrare in quel reparto di incapaci o ai miei gatti che la coccolano.

 

Tecnicamente parlando, dopo questa brutta esperienza ho scoperto che il sito dell’AIFA a proposito delle terapie contro le demenze, raccomanda alle strutture UVA nella nota 85 che la risposta clinica deve essere monitorata ad intervalli regolari, dopo un mese per la valutazione degli effetti collaterali e per l’aggiustamento del piano terapeutico.
Tre mesi, per una prima valutazione della risposta e per il monitoraggio della tollerabilità: la rimborsabilità del trattamento oltre i 3 mesi deve basarsi sul non peggioramento dello stato cognitivo del paziente valutato tramite MMSE ed esame clinico. Ogni 6 mesi per successive valutazioni della risposta e della tollerabilità.

 

Ma quale medico legge queste disposizioni?

 

Poi c’è la MMSE (Mini-Mental State Examination) che dovrebbe essere fatta ad ogni visita in forma cartacea e non pressappochista come fatto a mia mamma chiedendole solo “che giorno è?” “che anno è?” senza alcuna documentazione scritta. Si tratta di un questionario da cui il medico deduce i peggioramenti/miglioramenti del paziente ad ogni visita in modo razionale, senza basare la sua valutazione solo sul chiedermi: “sta meglio?” “come le sembra?” “è peggiorata?”. Io ci vivo con lei, vivo i suoi miglioramenti e i suoi peggioramenti, non sono il suo medico, sono la persona che l’assiste!

 

I piccoli, personali casi come il mio sono sempre conseguenze di scelte o non scelte politiche, due anni fa la Corte dei Conti ha emanato il suo giudizio sulla nostra sanità regionale (caduta nel dimenticatoio, tanto che non riesco a trovarla) definendo la spesa sanitaria enormemente aumentata negli ultimi dieci anni, senza un paragonabile ed equivalente incremento della qualità. L’italiano atipico, come me, si chiede subito chi ha governato negli anni antecedenti la giunta Serracchiani e la parte dell’italiano tipico che c’è in me deve incolpare qualcuno, oltre i disgraziati medici, che secondo l’idea che mi sono fatto, sono stati “nominati” dall’alto come esperti di patologie senili, senza alcun (potrei scommetterci) corso di formazione adeguata.

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