Adozioni: e questo , è solo l’inizio…

il palazzo che rende folli

Premessa : l’articolo che segue, è a firma di Arlequin. Ricevo e pubblico :).

Pochi giorni fa si è conclusa l’odissea di diverse famiglie che avevano intrapreso la strada dell’adozione in Congo.

I commenti che ne sono scaturiti (mi riferisco in particolare al FQ) hanno dimostrato una grossa ignoranza sul tema adozione , oltre che la solita spocchia per la quale “non lo so, non mi interessa, ma la mia la dico comunque”.

Ci sarebbero libri da scrivere al riguardo ma, in questo caso, mi interessa analizzare l’adozione dal punto di vista dei genitori.

Per prima cosa è necessario sfatare due leggende metropolitane ( ” luoghi comuni pavloviani”):

“MA CHE BELLA AZIONE”

Chi ricorre all’adozione, di norma, non è il buon samaritano del nostro secolo, ma una coppia che non può avere figli naturali (ci sono eccezioni ovviamente ma sono, per l’appunto, eccezioni),  che spesso ha prima tentato altre strade (non sempre,  ma è una cosa abbastanza frequente)

“POVERI ORFANELLI”

In realtà solo una piccola percentuale dei bambini che vengono adottati sono orfani. Spesso la mamma è viva (il padre spesso è scomparso più che morto) ma il contesto in cui vive il bambino, è di enorme degrado, e non più recuperabile.

Chiarito questi punti, gli aspetti da affrontare sono principalmente due: l’aspetto burocratico e quello emotivo. Per ora limitiamoci al primo:

BUROCRAZIA

In Italia non esiste il diritto ad essere genitori (la patria potestà infatti può essere tolta), né tanto meno quello ad adottare, infatti chi vuole farlo deve ottenere una apposita abilitazione. Questo comporta un buon numero di analisi e documenti solo per poter presentare la domanda; alcune regioni (vedi Toscana) chiedono alle coppie di partecipare a dei corsi di preparazione (4 incontri una volta a settimana).

Fatto questo si aspetta la convocazione da parte di psicologi ed assistenti sociali dei servizi locali,  per più incontri (singoli e di coppia, negli uffici ed in casa), poi finalmente
avviene il colloquio con il giudice del Tribunale dei Minori, che porterà in consiglio il dossier, ed alla fine uscirà il decreto di abilitazione con le specifiche del caso (numero figli adottabili, età, disponiblità ad accogliere bambini con handicap…)…. è passato in media più di un anno, ma finalmente la coppia può mettersi tranquilla ad aspettare di essere chiamata.

Insomma… per la verità non è proprio così.

Il numero di bambini che va  in adozione in Italia è, tutto sommato, basso e non sufficiente a coprire le richieste ed il decreto ha validità di tre anni a partire dalla richiesta
(quindi, di fatto circa due). E’ per questo motivo che, di solito, assieme alla domanda per l’adozione nazionale viene fatta quella per quella internazionale… e qui le cose si complicano.

Perchè? Essenzialmente per quattro motivi:

1) l’iter internazionale coinvolge uno stato straniero con le sue leggi, i suoi documenti, le sue procedure che devono essere rispettate assieme a quelle italiane. Un documento
che non sia valido in entrambi gli stati ha la stessa utilità della carta igienica.

2) I costi aumentano a dismisura

3) I tempi possono espandersi da alcuni mesi fino all’inverosimile

4) L’Italia ha, giustamente, aderito alla convenzione internazionale dell’Aja che comporta, tra le altre cose, l’abolizione del fai-da-te e la necessità di ricorrere all’intermediazione di Enti appositi riconosciuti ed abilitati sia dall’Italia che dal paese straniero.

Vediamo dunque ciò che comporta il punto 4.

I singoli Enti operano in numero limitato di paesi ed ognuno segue una sua procedura. C’è chi decide unilateralmente il paese dell’adozione, chi invece ne discute con la coppia.
C’è chi ricorre a tutte le forme possibili chi invece decide di trattare solo con enti pubblici. Ci sono enti fondati e portati avanti da volontari (di solito genitori che hanno adottato), ed enti composti da professionisti.

Insomma prima di dare il mandato ad un ente, scelta che deve essere fatta entro un anno dal decreto, è necessario analizzare con cura…e l’unica soluzione è chiedere appuntamento, ascoltare, porre domande e, alla fine, decidere (intanto è passato un altro anno o giù di li).

C’è poi da valutare il fatto che non è detto che l’Ente prescelto accetti la coppia, sia per motivi pratici (troppe richieste ed impossibilità di gestire tutte le coppie), che per motivi
etici (se chiedo un bambino biondo con occhi azzurri l’Ente, con tutta probabilità mi invita a cercare altrove).

Superata questa fase, si potrebbe pensare che ‘sia fatta’, e che dunque non resti che…

Invece no, non è fatta.

L’ATTESA

Intanto l’Ente, per accogliermi, mi fa fare un corso dove mi prepara alle problematiche e agli aspetti pratici e poi ci sono i documenti: lo stato straniero che ho scelto non
è detto che mi voglia, vuole sapere un sacco di cose e vuole che a dirle non sia io ma lo psicologo e l’assistente sociale dell’Ente e gli uffici pubblici, i documenti devono essere validi, con tutti i timbri giusti ecc…ecc…

Diciamo che alla fine lo stato accetti tutto (sono passati altri mesi);  posso, ora si, mettermi ad aspettare…ma non è detto che sia finita.

Il 99% degli stati che ricorrono all’adozione internazionale sono stati che non sempre sono molto stabili e/o affidabili. In Burkina può esserci un colpo di stato, in Congo un ufficio può decidere che, finito l’iter, si debba aspettare un anno (!!!) per mettere i timbri per permettere l’espatrio dei minori (questo è, a grandi linee, quello che è successo), le Filippine possono decidere di aderire alla convenzione dell’Aja, dovendo rivedere tutta la legislazione in merito…insomma possono passare altri anni.

Mi fermo qui. Il viaggio, l’incontro con il bambino, i primi tempi di convivenza…beh, si dovrebbe viverli per provare a spiegarli.

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